Semi al vento - Forum di incontro e discussione

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Denti
di Domenico Starnone

Nel primo pomeriggio del 6 marzo di tre anni fa persi in un sol colpo due incisivi. Erano quelli che mi servivano per pronunciare il mio nome. Avevo detto a Mara: "Basta, non ti voglio vedere più". Lei aveva risposto non con le parole ma con il posacenere. L'aveva afferrato per il bordo all'improvviso e me l'aveva sbattuto sui denti insieme ai mozziconi; poi se n'era andata a piangere in camera da letto.
Restai in cucina sgomento, ero certo che non mi amasse più. Le avevo appena finito di elencare le prove dei suoi tradimenti: bugie, scuse che non reggevano, nome e cognome dell'ultimo suo amante. "E' vero sì o no?" l'avevo incalzata. Perché non rispondeva? Avevo abbandonato moglie e figli per lei, possibile che mi ricambiasse così?
Mara tratteneva un sorriso tra dispetto e paura, non trovava le parole, ascoltava incredula. Io invece credevo a tutto quello che dicevo e anche quell'ultima domanda - possibile che mi ricambi così? - era stata ben altro che il frutto di un dubbio. Gliel'avevo ripetuta prima a distanza, poi sempre più da vicino, con la bocca su di lei come per morderla, il fiato che l'uncinava, le labbra a O.
Accadeva spessissimo che pescassi indizi delle sue tresche, facessi due più due ed elaborassi visioni di suggestiva verità. Tutto cominciava con un dolore crescente in mezzo al petto; poi seguiva un vuoto insopportabile, come se mi avessero aspirato gli organi interni e li avessero sostituiti con immagini su immagini di volgarità eccitante. Allora dicevo: "Siediti, ti devo parlare". E attaccavo.
Anche in quell'occasione ero partito in sordina e solo quando lei era diventata rossa avevo alzato la voce per dimostrarle: visto? ingenuo sì, cretino no. Adesso stavo provando a pronunciare Didone, tradimento, Dante, zizzania, ninnananna, Domenico, dado, Domodossola. Già ridevo: incredibile, che pazzo, che pazzo. Mara me l'aveva promesso, l'ultima volta che era successo: "Trattami ancora così e ti spacco i denti". Ecco fatto, spaccàti alla radice. Saggiai con la lingua il vuoto, le schegge estranee e taglienti ben fisse negli alveoli. Avevo le labbra e le narici piene di cenere.


Da bambino speravo che mi cadessero tutti i denti. Non i denti da latte, pieni di discrezione. Quelli erano caduti dopo un dondolio gentile, a volte con allegria a volte no, lasciando fori interessanti per la lingua, memorie di magie strepitose nelle pareti dove li avevo sepolti, miracoli di topi trafugatori che se li erano portati via per farne nonsoché. Invece volevo che mi cadessero i nuovi, tre volte più grandi dei precedenti. Mi sembravano ingombranti a tal punto che pensavo: non si può continuare così, devo sputarli. Sputavo ma loro restavano a mangiarmi la faccia con una superbia ingiustificata.
Erano comparsi all'improvviso, come pietre scagliate dal fondo della gola. Mi avevano trasformato le labbra in lembi di una lacerazione che appariva orribile a me e agli altri. Adesso la chiostra era così protesa verso l'esterno da assomigliare al becco di un rapace. Fremevo, non vedevo l'ora di cambiare nuovamente i denti. Altre magie, speravo; altri miracoli: questo non è riuscito bene: topolino topolino.
Ma sapevo poco o niente del destino dei corpi. Che i denti si cambiassero mi era sembrato un segno felice, un indicatore di potenza: se una cosa non va si sostituisce; ciò che è fatto non è mai definitivamente fatto. C'era una selva di denti possibili dietro quelli appena usciti; una foresta di capelli dietro quelli già fioriti; un'acqua marina occhiuta e multicolore pronta a gorgogliare dalle polle degli occhi; e la statura: ci si allungava e ci si accorciava a piacimento marcando con tacche lo stipite della porta.
Passò un po' di tempo prima che scoprissi: non li cambierò mai più. Dovevo restare per sempre a bocca socchiusa, attento a non ridere, annichilito dalla scoperta che i denti si cambiano una volta sola e il cambio non sempre è vantaggioso: peggio per me. A meno che non me li aggiustassi. Con la lingua. Con i denti di sotto che tentavano inutilmente di congiungersi a quelli di sopra e respingerli nel fondo della gola. Raddrizzare i torti: ortodonzia cocciuta e rozza indotta dal timore che i denti storti mi avrebbero fatto perdere anche i diritti più elementari.
Provai e riprovai. Forse bastava tirare giù il labbro superiore come una saracinesca. Ma le zanne premevano con ferocia, la saracinesca non reggeva, l'intera faccia non riusciva a contenere quella macchina trituratrice in espansione continua, sempre più nuda, terminale di moltissimi desideri. Per esempio il desiderio di ridere. Buffone angosciato dalle buffonerie mie e altrui, ridevo e mi nascondevo la bocca con la mano, subito inorridendo per il contatto dei denti contro il palmo. Gioia di zanne, pensavo; zannuto, mi dicevano, zannato, zannoso: ero un mascherone con ganasce sganassate. Cosa ridevo? Non c'era niente da ridere. Sprizzavo allegria e sofferenza, felicità e disagio.
Così mi decisi. A nove anni compiuti mi sdraiai sul pavimento, chiusi gli occhi e colpii coi denti la mattonella. Non feci gran danno. Si scheggiò solo un incisivo: uno di quelli che adesso Mara mi aveva cancellato dalla bocca con un colpo solo.
Presi quella decisione il giorno in cui andai con i miei genitori a visitare le rovine di Pompei. La città distrutta dalla lava non mi fece né caldo né freddo. Avevo i fatti miei a cui pensare e non riuscivo a immedesimarmi in quelli dei pompeiani su cui mio padre, per istruirmi, aveva insistito il giorno prima. Mi aggirai senza energie cercando di non perdere tra quelle case antiche i miei genitori, che si curavano poco di me e molto di loro: vedi qui, guarda là, oh com'è bello.
Io non ci trovavo niente di bello. All'ombra di un portico avevo divorato la frittata di maccheroni preparata da mia madre, mentre lei mi diceva: "Piano! Guarda che morsi! Attento alla carta oleata!". Faceva caldo, doveva essere un giorno di giugno, provavo un fastidio dell'esistere che mi rendeva pesante ogni passo. Quand'ecco che, tra tutti quei ruderi, mi colpì il profilo di certe colonne spezzate. Avevo (e ho) una vita piena di cose stupefacenti: quelle colonne all'improvviso me le sentii in bocca; e subito dopo mi sembrò che la terra giacesse in quel luogo a chiostra spalancata, i denti confitti nelle ossa di pietra. La città - pensai - era stata né più né meno che una bocca dentuta di fastidiosa voracità che dava morsi al cielo e il vulcano le aveva soffiato addosso il fuoco per cancellare quel proliferare di zanne. Così, senza pensare alla curiosità che avrei suscitato, mi sdraiai a terra per sentirmi il cielo sopra i denti e vedere se resistevano a quel peso. Quattro turisti si fermarono accanto a quel corpo di ragazzino all'apparenza esanime e uno di loro - un signore anziano di colore paonazzo - si inginocchiò e mi poggiò l'orecchio sul cuore, tunf, tunf. Mio apdre arrivò di corsa gridando: "Che fai? Sei scemo?". Quando tornammo a casa, barcollai lungo tutto il corridoio per dare a intendere che ero molto stanco. "Ohi, ohi, non ce la faccio più" annunciai con un grido di falsa allegria. Quindi mi gettai pancia a terra e diedi quel colpo terribile alla mattonella.
Mia madre mi portò per la prima volta dal dentista.

...


Edited by kai mimiki - 21/10/2005, 18:03
 
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Montedidio

di Erri De Luca



[...]
L'angelo glielo ha ripetuto, perché agli uomini si devono dire le cose due volte: "Volare volerai con le tue ali a Gerusalemme e farai scarpe insieme a Rav Iohanàn hassàndler", che da noi sarebbe don Giuvanne 'o scarparo. Com'era l'angelo del paese suo, gli ho chiesto. Uno che sapeva fare la vodka con la neve, mi ha risposto. La conosco la neve, è caduta nel cinquantasei e ha pulito la città, Napoli non è mai stata così bianca. "La neve non pulisce, copre, lascia tutto uguale, non scopa niente", mi insegna Rafaniello e mi sto zitto.


[...]
Ha fatto il conto che da Napoli a Gerusalemme ci vanno duemila chilometri di volo. Voi pensate di volare sopra il mare fino a là? Non mi risponde. Voi vi dovete sostenere, dovete mangiare come fanno gli uccelli migratori prima di partire. Poi penso, non glielo dico, che se va bene arriva fino a Castellamare di Stabia dall'altra parte del golfo, lo scambiano per un grifone e gli sparano per impagliarlo. Che schifezza di pensieri, no, no. Rafaniello con le ali fresche fa il giro del mondo, ce la fa, basta che mangia sostanzioso. Fatevi due uova sbattute, con un poco di zucchero fanno venire la forza di volare pure a me. Rafaniello mi guarda col verde degli occhi larghi: "Da come si muovono devono essere ali grandi". Ci rimettiamo al lavoro, lui coi chiodini in bocca, io con la scopa, pulisco il posto suo e mentre gli sto dietro sento uno scrocchio di ossa nella gobba e penso al bumeràn. Pure lui freme nella mano per volarsene in cielo. Glielo devo presentare. Lui mi ha detto il segreto della gobba e io non gli ho ancora ricambiato la confidenza.


[...]
Altri puverielli fanno meno chiasso di ammuina, però dalle loro voci rauche, fini, spuntano benedizioni potenti come le cannonate. Rafaniello risponde: "Mirzashè" che in lingua sua vuol dire: se Dio vuole. Nessun principe tiene le benedizioni che stanno nelle ossa della povera gente, che partono dai loro piedi, pigliano la rincorsa per tutto il corpo e spuntano fuori dalla bocca. Tengono una gratitudine i puverielli che nessun re ha mai sentito, e gli danno la spinta per Gerusalemme: così dice e io gli credo. A ora di pranzo chiudo la bottega, Rafaniello si toglie la giacchetta, mi chiede cosa vedo sulla gobba. Vedo una ferita, un punto viola in cima. Si comincia a spaccare, dice, come il guscio dell'uovo. Infilo il bumeràn nel pezzo di corda che ho cucito sotto la giacca e me ne salgo a casa.


[...]
Accompagno Rafaniello sul tetto ai lavatoi, per le scale saltella, non sa camminare. Si affaccia al parapetto, guarda a Sud e a Est. Apre il bianco degli occhi, spicca il cerchio del verde che fissa la rotta, presto ci salutiamo, gli chiedo i pensieri. E' mezzogiorno di Natale, tutti stanno in casa, noi soli all'aperto e splende l'aria a mare. Dice così, affacciato senza guardare me: "Da noi un proverbio dice: 'Questo è cielo e questa è terra' per indicare due punti opposti. Qua sopra sono vicini". Sicuro, don Rafaniè, da sopra Montedidio con un salto già state in cielo. "Ce ne vorranno diversi, molta spinta. Quando sogni di volare non porti peso, non devi convincere la forza a tenerti sollevato. Ma quando arrivano le ali e il corpo si deve fare pronto per salire l'aria, allora serve una violenza per staccarti da terra, un salto come un coltello che deve strappare dal suolo come un taglio. Sono un calzolaio, un sàndler, si diceva al mio paese. Aggiusto scarpe, m'intendo di piedi, capisco il loro appoggio, come fanno a tenere in equilibrio tutto un corpo alzato sopra di loro, capisco l'utilità dell'arco, la durezza del calcagno, la molla che sta nell'osso astragalo che accompagna i salti in lungo, in largo, in alto. Conosco i dolori del piede e la felicità di reggersi su ogni superficie, pure su una corda tesa. Una volta ho fatto un paio di scarpe in pelle di daino a un funambolo del circo. Qui a Napoli ho imparato che i piedi sanno navigare, ho aggiustato scarpe di marinai che devono pareggiare il pendolo del mare. i piedi mi hanno portato fino a questo Montedidio, loro mi hanno salvato. Da noi si dice che i piedi, non i denti, danno da mangiare al lupo. Ho pure una gobba che mi spinge verso il basso e allora uno così terrestre che ci fa in cielo a sbattere ali sotto le stelle?"


 
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Non ora, non qui


di Erri De Luca


[...]
Chi ti protegge, chi ti salva dal riconoscere il tuo bambino muto nell'anziano signore che guardi chiuso in un vetro di autobus? Quale forza ti nega di sapere quello che stai vedendo? Una gran forza dev'essere quella che può confondere sensi altrimenti precisi, notizie altrimenti evidenti. Una gran forza ci procura al momento giusto la miopia utile per vivere.
Mi guardi con il cruccio severo dove resta quel tuo eterno rimprovero rivolto a noi bambini: non ora, non qui.
Non posso obbedirti, non faccio più in tempo. Sta per capitare proprio ora e in questo strano posto.
"Non ora, non qui." Avevi ragione, molte delle cose che mi sono accadute furono errori di tempo e di luogo, cose da dire: non ora, non qui. Però a questo vetro d'autobus mi accorgo di essere in un'ora e in un posto a me riservato da tempo.
Intorno ferve il movimento. Le porte si sono aperte, la gente sale e scende da tutte le parti urtandosi. Mi tengo vicino al vetro, c'è trambusto, ma tu e io siamo fermi. Vengono il tempo e l'occasione, vengono quando due persone si fermano: allora si incontrano.
Se uno si muove sempre, impone un verso, una direzione al tempo. Ma se uno si ferma, si impunta come un asino in mezzo al sentiero, lasciandosi prendere da una distrazione, allora anche il tempo si ferma e non è più la soma che sagoma la schiena. Se non lo trasporti si versa, si spande intorno come la macchia d'inchiostro che il mio pennino faceva da solo, dritto in equilibrio sulla carta assorbente, per poi cadere vuoto.
Chi si ferma si incontra, anche una mamma giovane e un figlio anziano. Il tempo fa come le nuvole e i fondi del caffè: cambia le pose, mescola le forme.
Siamo fermi nella fotografia, ma tu sai quello che sta per accadere perché tu hai proseguito oltre. Io invece so chi tu sei, ma non il seguito che conosci. Io so il tuo nome, tu sai il mio destino. E' questa una strana condizione. Ci fu un tempo opposto in cui tu mettevi al mondo una creatura dandole un nome, ma ignorando quello che le sarebbe accaduto. Ora sei al vetro attraverso il quale vedi il seguito, ma non sai più di chi esso sia.
Viene il momento in cui una madre va verso il filo del figlio, con occhi assorti e non lo riconosce. Va come attraverso un campo e tocca l'erba alta con le dita. Io sono il filo e il figlio che tu guardi.
So che mi sta accadendo di morire. Altri prima di me videro la loro madre venire senza riconoscerli, la chiamarono per nome, ma forse c'era un vetro. Una madre va su un campo con gli occhi fissi al vento che piega la cima dell'erba, arriva al filo, al figlio e lo raccoglie. Mi avvisi di questo: verrai verso di me, come venivi verso il lettino a spegnermi la luce.
 
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Non si muore tutte le mattine


di Vinicio Capossela


[...]
... Quando non si è nella luce ci si contenta di sentire delle ombre. Ombre nel cammino come alberi attorno a un viale. Soltanto i marciti, gli incattiviti non fanno ombra attorno a sé. L'ombra è la ricchezza che non si vede, ma rende luccicante il cammino là dove si deve andare da soli. Per quei viaggiatori soli, quelli che arrivano più lontano, ci vogliono le ombre. Per non perdersi del tutto. Che così passano tra gli uomini, donandogli a loro volta il bagliore, la perla che essi hanno intravisto.
Nella nostalgia e nell'euforia. Così sono quelli che arrivando a sé trovano anche la vita, e nella loro ebbrezza c'è la perla. Quelli che ancora si addentrano nella notte, nelle pieghe, nelle visioni, e rimangono altro da sé. Cantano celebrando, e allora soltando amano. E amano così, come nella sbornia, nella luce che gli si apre davanti a squarci, e poi ritornano quelli di prima, peggio di prima, per quanto poco sopportano di ritrovarsi.
E tutto li fa soffrire e li ottunde... il miracolo appena accaduto, perfino. Non li appaga affatto! Continuano, come per acciuffarne ancora, però non si sa quando succede. Sono iracondi e non lo sanno fare a comando. Perciò soffrono come cani, come cani soli, rimpiangendo sempre la sera prima. E ogni cosa intravista è per loro un sorriso tra i denti nell'estasi e un lutto. Però... dignitosi. Nel continuo ombreggiare intricato, dignitosi. Come chi possiede qualcosa. Solo allora finisce. Senza abbracci si ritorna...


[...]
Arrivo con la febbre ancora addosso dei cinquemila chilometri di ferro nelle ossa, arrivo a vapore e carbone e non so spiegarmi, balbetto addirittura. E' il movimento che, rimescolato all'anima, mi fa rimpiangere tutto. Il cielo pomposo e le foglie che lo assaltano e i binari, nervi scoperti, vene della terra. L'elettricità è la lava che li percorre e trapassa. Tende volano da ogni parte, escono dai finestrini come veli di spose, ciondolano dai corridoi, salutano a vanvera, arringano la notte, come la cappa di un torero... la ruota frusta la terra e la dissangua... la velocità si prende tutto... urla il dirupo e mi divora i piedi.
Datemene. Datemene ancora... non sono fatte le stazioni per restare ed aspettare.

Nella stazione enorme e pietrificata, dove mi sono venuto a rintanare, i treni covano come mammut nel tempio di pietra, brucianti di elettricità e di addio...
 
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E' la storia di una donna danese che visitando la mostra di un pittore parigino resta colpita ed affascinata dalle sue opere al punto di inviare all'autore un messaggio.
Il pittore, sorprendentemente, le risponde.
Da qui ha inizio un'intensa corrispondenza e, a poco a poco un magico, travolgente desiderio.
Il rapporto, epistolare, cresce di pari passo con la passione, il tormento, la fantasia erotica.
Alla fine Delphine troverà il coraggio di annunciare a Jean-Luc di essersi messa in viaggio per incontrarlo e...


Per lettera

Iselin C. Hermann


Breve lezione sull'uso del "tu" nelle sue diverse varianti grammaticali:

Voglio immaginare che fletti la nuca.
E vai allo specchio.
Sciogli i tuoi capelli.
Lo fai con indolenza.
Ti vedo muoverti lentamente e slacciare il primo bottone della camicetta, poi il secondo...
Fai scivolare la camicetta sui fianchi e molto piano, come in trance, spingi la gonna - la tua lunga gonna nera - sulle ginocchia. Poi la sfili dai piedi.
Ti immagino seminuda davanti allo specchio, ti fai guardare.
La tua pelle è luminosa, e chiudi le tende.
Ti lasci baciare sulla nuca da

Jean-Luc







24 maggio


Jean-Luc,
come priva di peso continuo a rileggere la tua lettera.
Fletto la nuca e fletto i verbi e mi struggo.
Sono priva di peso per la nostalgia di un uomo che non conosco - di cui conosco la grafia senza conoscerne la mano, di cui conosco le parole senza conoscerne la bocca. Priva di peso per il desiderio e l'invidia che provo per la carta su cui scrivo, perché presto sarà nelle tue mani e sotto il tuo sguardo. A volte penso a te come "tu", a volte come "lui".
Essere nelle sue mani, sotto il tuo sguardo!
Invidio l'acqua che al mattino scorre su di te, l'acqua che goccia a goccia si trasforma in rivolo lungo il tuo corpo nudo. Invidio il pettine che ti scorre fra i capelli, e la tazza che lui porta alla bocca. Invidio il coltello che lui tiene in mano, e la mano che taglia il pane. E il pane in cui lui affonda i denti.
Vorrei essere la camicia che sfiora leggera la tua nuca, le tue spalle, il tuo ventre. Vorrei essere le scarpe comprate in Svizzera quattro anni fa, che lui mette così volentieri e che lucida così spesso. Per non parlare dei pennelli che lo aspettano nell'atelier, o della tela tesa sul telaio!
Vorrei essere la poltrona dell'atelier, in cui ti siedi a osservare il tuo lavoro.
E invidio il vino che lui degusta mentre prepara il pollo - immagina: essere quel pollo che viene spalmato d'olio, aglio e sale, per essere poi mangiato da lui.
Oppure, immagina, essere il barbiere che gli taglia i capelli, o la cassiera del Félix Potin, il piccolo supermercato che c'è sicuramente in piazza. Non sa quanto è fortunata, lei che ogni giorno può salutarlo e, quando esce, chiedergli se non ha dimenticato niente!
Immagina: essere le monete che escono tiepide dalla sua tasca.
E quale lenzuolo preferirei essere: quello su cui si stende nudo quando va a letto, o quello con cui si copre per dormire? Meglio il lenzuolo con cui si copre, credo, quello che si modella sul suo corpo, gli si infila fra le gambe e sotto le braccia. Quello che lui annusa quando è pulito, e che nel corso della notte si impregnerà del suo profumo. Non oso nemmeno pensarci...
Però: se fossi il tuo coltello, la tazza o il pollo, se fossi la cassiera, le tue scarpe o la camicia, allora non sarei priva di peso per la nostalgia, come sono ora, e non mi metterei il profumo sui polsi strofinandoli su ogni foglio - soltanto sul bordo, con discrezione. Allora non piegherei con tanta cura la lettera che ho scritto, prima di infilarla nella busta come ora farò. E non sarei priva di peso come il profumo, e come ormai io stessa sono. Priva di peso per il desiderio. Così leggera da essere messa nella busta e spedita. Allora non sarei la donna che ha appena ricevuto una tua lettera e che leggera, senza peso, si chiama sempre

Delphine
















 
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Tropico di Napoli

di Peppe lanzetta


Hotel Gelsomino.
Umberto, pelato occhi falsi, sorriso a trentadue denti qualcuno cariato e qualcuno d'argento faceva il doppiogoco.
Affittava le camere e poi andava a spiare le coppie. Rattuso. Voyeur. Malato.
Vendeva orologi imitazione delle grandi marche, computer rubati, telefonini clonati, faceva piaceri di tutti i tipi, ma quello che non voleva ammettere era che pure lui "prestava" soldi. Diceva che non era lui. "E' un amico, io faccio solo da tramite".
Conosceva tutti i segreti della ferrovia, aveva visto di tutto negli anni in cui aveva cercato di arricchirsi illegalmente perché lo stipendio di portiere d'albergo non gli bastava. S'era fatto tentare da tutto e tutti, cattivo, cinico, faceva finta d'essere amico, aveva escogitato in quell'albergo il trucchetto della camera col buco e quando capitava qualcuno che lo arrapava particolarmente si catapultava a masturbarsi con la bava alla bocca.
Per cinquemila lire faceva anche "guardare" altre persone che stazionavano fuori dell'albergo, per lo più anziani, ma anche persone insospettabili. E la camera col buco divenne un paradiso per Umberto, dove bavosi guardoni ficcavano a turno l'occhio, un paio di minuti a testa, chiaramente dopo aver pagato, e tirando i loro arnesi fuori si masturbavano spesso toccandosi l'un l'altro. Ogni tanto s'inseriva pure il laido Umberto, specialmente quando fra i guardoni c'era qualcuno che era ben fornito.
Spesso la camera col buco diventava solo un pretesto per far fare un'ammucchiata dall'altro lato della stanza, un'ammucchiata silenziosa e libidinosa, fatta di calzinisporchi e bucati, denti ingialliti, protesi, calvizie da riporto ma anche qualche fisico ben messo che stendendosi per terra faceva da materasso a quelle anime dannate che si contendevano un centimetro di carne da leccare. Tutto questo nel mezzo della ferrovia napoletana. Spesso sotto il sole, ma anche sotto la pioggia, sotto il vento, mentre la guardiola Umberto l'aveva lasciata in custodia a una ragazzabisognosa che sapeva ma taceva e sostituiva il porco pur'essa per cinquemila lire.
Umberto conosceva naturalmente pure il vecchio usuraio della ferrovia e sapeva pure i suoi segreti. Sapeva che non poteva avere regolari rapporti sessuali, sapeva che si "teneva" una donna moglie di un suo "cliente" invaso dai debiti e arrivato al punto da non poter più pagare e allora il vecchio s'era "presa" la moglie, un pezzo di femminona che stava con lui solo per andare a ballare, perché il vecchio amava ballare e ogni tanto gli leccava quello che gli rimaneva.
Il marito sapeva tutto e taceva. Tutto questo nel mezzo della ferrovia napoletana. Umberto conosceva uno che prometteva certificati di falsa invalidità e relativa pensione, per fregare l'Inps, per fregare lo Stato, per fregare qualcun altro che ne avrebbe avuto diritto, ma soprattutto per allungare un po' la loro vita scellerata, senza entusiasmo, una vita fatta di un bucato ingiallito, mai stato bianco, una vita dove la legge non esisteva, dove la parola Stato era un'utopia, dove come "zoccole" uscite dai tombini la mattina sbucavano dalle loro tane in cerca di un pezzo di qualcosa che li facesse illudere di essere ancora vivi.


[...]


Catuogno fu trasferito su due piedi a Novara, dalla sera alla mattina.
Il suo risoamaro non si fermò, continuò lo stesso, imperterrito, a sgranocchiare patatine e cipster e a fumare sigari-cubani.
Se lo aspettava, anzi se lo sentiva.
Quando aveva scoperto la "magagna" dei poliziotti collegati alla malavita si era sentito troppo solo, troppo fragile, troppo coglione e tutto ciò gli sembrava troppofolle e allora sarebbe stato molto più facile passare lui per follemattopazzoscatenato, uno che aveva visto troppi film americani, troppi telefilm, troppi gialli e l'arteriosclerosi cominciava a farsi sentire...


Con la comunicazione ricevuta tra le mani che intimava l'immediato trasferimento alla questura di Novara, Catuogno abbassò il capo e continuò a sorridere amaro.
Se lo aspettava, ma lui a Novara non ci sarebbe mai andato.
Prese carta e penna e scrisse una lettera in cui rassegnava le sue dimissioni.
Il Callaghan napoletano preferiva licenziarsi piuttosto che vedere il suo lavoro vanificato, buttato al cesso, e quella decisione, che prese con ancora il foglio tra le mani che lo obbligava al trasferimento, fu irremovibile.
Non ci furono ordini, superiori, capi, ragioni o altro: Catuogno andava via, ma non a Novara Cagliari o Udine. Catuogno tornava a casa a continuare a sgranocchiare patatine noccioline a bere birra scadente davanti alla tivvù ma i piedi in faccia non li avrebbe presi. Aveva una dignità, Catuogno, una faccia, un nome, due palle, un orgoglio, qualcosa da dire a qualcuno, qualcosa da raccontare, il suo sorrisoamaro da continuare...


Si licenziò Catuogno, le sue dimissioni furono accolte sottosotto come una liberazione.
Se ne andò nella sua casetta vicino al mare a Bacoli e la mattina se ne andava a pesca.
Ore e ore sul molo di Bacoli, a guardare i pescherecci in alto mare ma anche le paranze che uscivano con i pescatori che lui conosceva, di cui era diventato amico anni prima e che anche ora che lui s'era licenziato continuavano a chiamarlo "l'ispettore".
Lui sorridevaamaro e tra i denti diceva: "l'ispettore do' cazzo" e continuava a pescare triglie, saraghi, scorfani e quant'altro il mare gli offriva.
Viveva solo Catuogno, non s'era sposato, aveva una sorella in città presso la quale stava da sempre e la sua casetta vicino al mare a Bacoli.
La sua casetta che era il suo rifugio, la sua alcova, il posto in cui andava a respirare lontano dalla "puzza" delle cose che vedeva e sentiva sul suo lavoro.
Era un uomo serio, Catuogno, forse anche troppo. E una mattina che scendeva dalla sua casetta nel borgo dei pescatori di Bacoli fu avvicinato da due giovinastri su una vespa malmessa, di quelle che si vedono in continuazione, di quelle comuni nei posti di mare dove la gente ama muoversi più liberamente, senza tante costrizioni.
Lo stavano aspettando, lo salutarono pure, chiamandolo così come lo chiamavano tutti: "Buongiorno ispetto'!".
Lui salutava tutti. Anche quelli che non conosceva e che lo salutavano perché magari sapevano chi era.
Stava per salutare pure quei due sulla vespa quando uno dei due, tirata fuori una pistola enorme con silenziatore, lo freddò lì sul pavimento brecciato del borgo di pescatori, davanti alla sua casetta, con in mano la canna, gli ami, la lenza e il resto appresso. Una voce da una finestra gridò: "Hanno acciso a l'ispettore!".
Ma nessuno la sentì. Intanto il sole s'era alzato, la luce era forte.
Ma nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito.
 
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Un destino ridicolo


di Fabrizio De André Alessandro Gennari


Capitolo terzo
Genova, luglio 1963


Come ogni sera, prima di scendere, Carlo guardava il tramonto dal balcone controllando il passeggio delle sue donne. Scartò una gomma americana assaporandone il velo di zucchero, sporse la mandibola e dal basso in alto alitò verso le narici l'aroma di menta. Accese una Camel pensando che finalmente il pomeriggio stava lasciando il passo a più accattivanti e familiari penombre.
Si girò un istante distratto dal cicaleccio alle sue spalle: in fondo al salone sua madre intratteneva le amiche invitate per il tè raccontando una storia incomprensibile, che sottolineava con ripetuti gesti delle mani e occhiate severe; d'improvviso rimase immobile, annuì più volte e mormorò una parola che fece ridere le altre.
Ogni notte Carlo faceva il giro delle sue ciccette accompagnato dalla mamma, una signora grassoccia e premurosa che usava portare in testa variopinti foulard di seta per nascondere i capelli radi. Una donna dal fisico robusto e dal carattere forte abbastanza per crescere il figlio da sola dopo che il marito, come scorciatoia ai propri sogni di maturo adolescente, aveva scelto il Sudamerica senza lasciare l'indirizzo.
Durante la guerra, prima di sfollare in campagna aveva impilato una cinquantina di sterline d'oro nei tubi dell'acqua di casa. E ogni sera, al momento di addormentarsi si faceva il segno della croce pregando il Signore che le bombe degli inglesi risparmiassero la sua cantina.
La luce dell'ultimo sole dorava il ponte della Corral Sea, la grande portaerei americana ormeggiata in rada: cinquantamila tonnellate di minaccioso itinerante acciaio dal cui castello di tribordo i marinai si divertivano a buttare sigarette, cioccolata e berretti ai ragazzi, che con qualsiasi natante riuscivano a raggiungere le circostanze della linea di galleggiamento delle sue gigantesche murate. Nei primi anni del dopoguerra lasciavano cadere anche piccole monete d'argento, ma presto si erano accorti che i giovani abitanti di quella curiosa città marinara, se di buon grado accettavano un dono, mai si sarebbero abbassati a raccogliere un'elemosina gettata a luccicare di offesa nel loro stesso mare.
Le voci stridule che Carlo udiva alle proprie spalle lo infastidivano, dostraendolo dalle fantasticherie di ogni sera, ma con le anziane signore non poteva mostrarsi scortese, perché a sua madre non era stato facile trovare amiche passabilmente rispettabili che fingessero di ignorare il mestiere del figlio. Era cresciuto in quella casa piena di spigoli e di ombre, di ninnoli e di cuscini foderati in pizzo di Sangallo ad ornare sbiaditi divani di velluto; reperti di un mondo che la guerra aveva scosso da una polverosa immobilità, i cui resti sarebbero presto scomparsi senza lasciare rimpianti.
I lamenti sconnessi del sassofono e qualche colpo isolato di un rullante non abbastanza teso lo fecero voltare verso lo Scandinavia; sotto l'insegna al neon che aspettava di accendersi un gruppetto di marinai in divisa bianca discuteva con il buttafuori, che fingeva di non capire l'inglese. L'orchestrina aveva cominciato le prove e Carlo, battendo il tempo sui pantaloni attillati, ripensò a quando si era lasciato sfuggire l'occasione di diventare musicista; a quindici anni si era accorto di come le ragazze si lasciassero trasportare da quelle musiche nuove e sempre più coinvolgenti che mutavano a ogni stagione, come l'odore del mare. Sua madre gli aveva comprato una chitarra e lo aveva mandato a lezione da un anziano orchestrale, che si era subito entusiasmato per la musicalità del ragazzo. Ma dopo qualche settimana Carletto si era accorto che pure lì, come a scuola, occorreva impegnarsi e studiare, che a ben poco serviva essere bello e forte, avere la grinta giusta e la battuta pronta e che lavorare con metodo ogni giorno sarebbe stata una violenza intollerabile, qualunque ne fosse il premio.
Ancora adesso, quando in compagnia tirava mattina allo Scandinavia e i musicisti lo invitavano a salire sul palco per una jam session, nel percuotere le tumbe pensava che prima o poi il destino lo avrebbe condotto a esibirsi in pubblico e che magari un nuovo marchingegno gli avrebbe consentito di imparare a suonare senza sforzo: il mondo premeva sull'acceleratore, suoni e nomi mai uditi, oggetti mai visti e colori, pettinature e vestiti che nessuno avrebbe immaginato fino a un mese prima si inseguivano in tempi sempre più brevi e questo vertiginoso caleidoscopio di immagini sembrava promettere che entro pochi anni un nuovo infinito si sarebbe spalancato e lo spettacolo multicolore del cinema avrebbe sfondato lo schermo per invadere la vita e rimescolarla: nelle sabbie bruciate dei deserti e nelle insegne luminose delle città dei film americani, ricchi petrolieri dissipavano la giovinezza, torbide vicende di denaro scatenavano delitti passionali e creature di pianeti lontani rompevano finalmente un eonico isolamento.


[...]

Guardando in strada, si accorse improvvisamente di quell'ometto ridicolo che da una settimana ogni sera si prendeva Veretta e la teneva tutta la notte; vestito di scuro sulla camicia candida come usano i meridionali, ma con i denti grossi, la faccia allungata, il naso corto e dritto e i capelli irti come il crine di una spazzola che aveva notato altre volte nei sardi, pagava regolarmente una cifra esorbitante senza fare storie, ma rispondeva alle domande senza mai guardarlo negli occhi. Era innamorato di quella scema.


[...]


Quella notte, sulle onde del sonno che si accavallavano al ritmo del respiro, il dissolversi della coscienza portò a Salvatore immagini che si sovrapponevano e si dilatavano, saltando dai giorni agli anni nella magia del sogno. Adesso era seduto sotto la veranda della grande fattoria in Sardegna: tra le cascate viola dei glicini, maggio quell'anno si era fermato a lungo nel cortile, come impigliato in un vischio di rondini. L'estate brucia e le sughere corrono dietro i cani.
<< Le sughere corrono dietro i cani! Gli corrono dietro per farsi pisciare addosso!>> gridò sudato nel dormiveglia. E si riaddormentò in un sorriso umido di saliva.
Veretta è seduta in cucina: culla il loro primogenito mormorando una ninna nanna che sua sorella, tornata dalla Sicilia, cantava ogni sera al bimbo dei signori da cui era a servizio.

Figlio mio, figlio da amare
vola la culla in mezzo al mare
figlio bello dormi e piangi
vola la culla in mezzo agli aranci.
Bambino caro dormi e ridi,
vola la culla in mezzo agli ulivi,
ora dormi, dormi e riposa,
che buon profumo che manda la rosa.


Adesso il figlio è grande, segue la scuola con profitto, porta gli occhiali e li aiuta nei conti. Tortura gli animali: acchiappa le mosche e strappa loro le zampe, osserva il carosello disperato di una lucertola dentro un cerchio di fuoco; col detersivo lava le anitre che, prive del grasso delle piume, riescono a tenere fuori dall'acqua solo il collo e la testa: sembrano periscopi di sottomarini. Salvatore ride e si compiace dell'allegra fantasia di quel figlio così innamorato della vita, pronto a strapparle i frutti più saporiti e ad affondare i denti in quel ben di dio che lui è riuscito ad assaggiare appena...

 
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Bene! Dopo una lunga pausa (durante la quale non è che io abbia smesso di leggere, eh?!) eccomi ancora qui a propinarvi stralci di libri e stracciate impressioni personali.
Puntualizzo che qui posto solo frammenti di libri per così dire meno diffusi, i classici ovviamente non mi permetto di commentarli tongue.gif

Quindi... La neve se ne frega di Ligabue edito dalla Feltrinelli.
Questo libro è stato una sorpresa, piacevole. Al di là delle insinuazioni - L'ha scritto davvero Liga? - e superando la non completa originalità della struttura futuristica di un mondo regolato in ogni avvenimento (chi ha letto Orwell, Dick, Huxley e non solo ne troverà riferimenti) questo romanzo è godibilissimo ed è una dolce storia d'amore per la vita.

Un mondo popolato da un numero definito di abitanti, in cui si vive al contrario nascendo vecchi e ringiovanendo via via per morire bambini, incoscienti e limitati nella propria autonomia.
Un mondo in cui l'imprevisto non deve esistere, tutto viene controllato e pianificato, dalle attività sociali, alle amicizie, alla scelta del/la compagno/a di vita; dove le tracce del passato sono incomplete (files e files cancellati di libri, film, musica, scoperte scientifiche) dove la procreazione non è contemplata, dove tutto è perfetto per assicurare la felicità... immaginaria.

DiFo e Natura, i due protagonisti, personificano mirabilmente il piano Vidor, regolatore dell'umanità. Anno 2179.
Un mondo perfetto, monitorato in ogni suo accadimento fin quando la natura e quindi lo scatenarsi dei sentimenti, la forza dell'amore che chiede di vivere, esplodere, proiettarsi nel futuro attraverso un figlio non ha il sopravvento. E mette in crisi il sistema collaudato e ineccepibile.

La storia avvolge con una tangibile nostalgia verso la ricerca di una felicità che comprenda anche il dolore e le imperfezioni dell'Uomo e della vita.

La neve se ne frega

Sette - o il silenzio del Diagnos -

DiFo, amore mio,
è venuto il momento di scriverti una lettera.
So benissimo i rischi che corro, ma ho assolutamente bisogno di dirti delle cose "senza di loro".
Non oso nemmeno pensare cosa succederebbe se eseguissero il ritiro di quello che sto per scrivere e lo leggessero. E' un'ipotesi che non voglio nemmeno considerare: cerco di convincermi che in questo momento le microcamere non siano accese e basta.
Già, le microcamere. Non so per te, ma per me ancora oggi resta insopportabile l'idea che una vigilante ti possa vedere fare l'amore. Lo sappiamo che lì viene messa solo gente che di nascita non può essere morbosa. Però mi viene difficile pensare che un'altra donna non provi proprio niente mentre ti vede sempre indovinare i miei punti. Punti che non restano fermi. Che non si accontentano di una mappa sola. Ma che tu scovi con tutta quella facilità. Con tutta quella puntualità. Tutte le volte.
No, non credo proprio che le vigilantes possano essere così di legno.
Certi giorni penso che dovrei condividere la tua bellezza con il resto del mondo. Non tutti i giorni sono così brava.
Non so quante volte mi sono messa a ringraziare il Cielo e il Piano per avermi fatto donna e per avere fatto te uomo. Intendo "così" donna e "così" uomo. Per quello che mi riguarda vuol dire, da sempre, avere la sensazione di essere nell'esatto, unico, perfetto centro di "qualcosa". Quel "qualcosa" che poi credo di essere io. Per quel che riguarda noi due, invece, vuol dire tutte le meraviglie e i miracolosi incastri che ben conosci.
Riesci a vedere quanto sei bello? Li vedi i tuoi capelli ora che sono quasi tutti neri? Come ti si è scurita anche la pelle? Come ti si sono alzate le spalle e ti è cambiata la postura? E le sopracciglia? Fino a qualche anno fa bianche, peli lunghi, incontrollati. Ora scure. Ordinate. Decise. Sopracciglia che esigono strada. Non smetterei mai di tenerti le mani addosso. A sentire la consistenza aggiornata della tua pelle, delle fibre, dei nervi, dei muscoli.
I tuoi occhi hanno perso parecchia della morbidezza a cui mi avevano abituato. C'era una certa fragilità lì dentro a cui sono sempre stata molto legata. Ora però è subentrata una specie di "pericolo", una "possibilità di perdita di controllo" che pizzica corde che avevo probabilmente nascoste da qualche parte in profondità.
Deve essere per queste caratteristche, che non ce la fanno più a starsene buone nei tuoi occhi, che non mi sono troppo stupita del fatto che tu abbia finito col ricorrere alla violenza per difendere quella che sono.
Quando ti dico che ringrazio sia il Cielo che il Piano è semplicemente perché voglio essere sicura che almeno un ringraziamento arrivi a destinazione. Perché, che sia stato il Cielo o il Piano, chi ha deciso di farci vivere insieme di sicuro si intende di perfezione.
Mi conosci benissimo. Ci siamo abituati a dirci tutto senza aprire bocca. Quindi, saprai altrettanto bene il motivo di questa lettera, oltre alla possibilità di ricordarti quanto ti amo senza doverlo fare di fronte ai soliti "testimoni", è la mia angoscia per questa disfunzione fisica. Sono più di tre mesi, almeno da quando me ne sono accorta, che mi trascino questo problema. Non solo: continuano ad aumentare. La pancia e il problema.
Riesco a sentire che sei sincero quando mi dici che non ti importa. Mi sembra che tu lo sia un po' meno quando affermi che, anzi, così ti piaccio di più.
Il mio corpo dovrebbe essere ogni giorno più tonico. Meglio modellato. Invece devo vivere l'incubo di vederlo allargarsi, deformarsi. Non sopporto la nuova goffaggine di ogni mio movimento quando stiamo insieme. Non posso scansare il pensiero che ti faccia un po' senso questo nuovo grasso con cui ti tocca fare i conti a letto.
Credo di aver passato quasi due mesi in un limbo di stordimento rispetto a questa condizione. Conosci qualcun altro che soffra di qualche malattia? E allora perché io?
Ho spesso la nausea e l'affanno. Al lavoro non è facile.
Sai, a volte mi chiedo se sia giusto mantenere ancora i parchi nelle città. In fondo sono l'unico posto in cui si è costretti a "modellare" o "controllare" la natura. Altrimenti quella si "mangerebbe" la città. La gente potrebbe sempre prendere la macchina o la bicicletta come abbiamo fatto noi domenica scorsa e, a pochi chilometri, trovare comunque il verde che cerca.
Però basta fare un giro in un parco a caso, il Tanter per esempio, a cui sto lavorando in questo periodo, ed è impossibile non godere dell'erica e della rosa canina. Del ginkgo biloba che comincia ad ingiallire. Dei castagni e del sambuco pronti a dare frutti. Dei carpini, dei tigli, delle betulle e dei pini. Delle piante e dei fiori che nascono di loro volontà come il gigaro, la valeriana rossa, la saponaria, il rosolaccio, il glittaione, il fiordaliso, la cicoria. E poi tutte quelle che in passato chiamavano "erbacce", le piante "in movimento" che si autoseminano in giro, come il tasso barbasso, la salvia sclarea, la covetta, il piumino, l'uva turca.
Il parassita che attacca la pianta, la coccinella che si nutre del parassita, l'uccello che mangia la coccinella e poi concima con il guano. La bellezza dell'equilibrio della bellezza.
Ma, per la prima volta, vederne così tanta in giro mi fa soffrire: sento di non farne parte come dovrei. (Sono finalmente rientrata in argomento, del resto sono o non sono la tua divagatrice preferita? Lo so che più scrivo più rischio di venire scoperta ma questa sensazione di libertà ubriaca. E poi si vede che ne ho proprio bisogno).
Mi sto attenendo al piano alimentare previsto. A volte sono tentata di mangiare meno, ma sono sicura che loro non sbagliano. Non hanno mai sbagliato. Quante volte mi sono sottoposta ai controlli del nostro diagnos? Sempre e solo un responso: "nessuna anomalia di rilievo". E allora questa pancia cos'è se non un'anomalia? Avrai notato anche tu che, invece di diminuire il mio fabbisogno alimentare per permettermi di dimagrire, addirittura lo hanno aumentato. Non lo so. Non ci capisco più niente. Non so come finirò se continua così. Non so se mi passerà mai.
Ci sono momenti in cui ho la sensazione che mi si muova qualcosa dentro. Come se anche la digestione avesse modificato i suoi meccanismi. A volte è una sensazione quasi macabra. Altre volte mi produce un risucchio di calore. La gamma dei miei umori è alterata: piango più facilmente, rido anche di più. Ballo in un attimo da un estremo all'altro. E ritorno.
Un'altra cosa che sento è che sarebbe meglio se al Centro non sapessero niente. Ma come faccio a nascondergli questa pancia? E comunque qualcosa devono sapere: l'ultima volta mi hanno fatto avere una dotazione di vestiti che è della mia taglia di adesso.
Ho fiducia nel corso delle cose. Nelle nostre risorse. In tutta la sfacciata bellezza che ci assedia, amore mio.
Ma in questo momento mi è impossibile non aver paura. Perdonami se te l'ho scritto. So che sei già abbastanza preoccupato per me. Però dovevo spiegarti il motivo degli scatti, degli atteggiamenti che in questi giorni non riesco a controllare. Visto quanto ti feriscono.
Ho capito che la paura rende soli. E finora, grazie a te, non lo sono mai stata.
Con l'amore che sai,

Natura



 
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Affetto dal male di vivere, il protagonista, pur riconoscendo l'immensa ricchezza racchiusa nel suo intimo, è divorato dall'incapacità di rapportarsi a un mondo esterno, da cui è in qualche modo rifiutato e che egli ossessivamente insegue e rinnega.



"Memorie del sottosuolo" Fedor M. Dostoevskij, Edizioni Clandestine 2004


I
Sono una persona malata... cattiva. Sono uno che non ha niente di attraente. Credo di avere una malattia al fegato. Anche se d’altra parte non capisco un accidente del mio male e non so cosa ci sia di malato in me. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se della medicina e dei dottori ho rispetto. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; o perlomeno lo sono abbastanza da rispettare la scienza. (Sono sufficientemente colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi e non voglio farlo per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Ovviamente non saprei spiegarvi a chi in tal modo intenda far dispetto con la mia cattiveria; non certo ai medici medesimi non curandomi da loro! E altresì so bene che così nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è giustappunto per cattiveria. Il fegato mi fa male? E allora avanti, che soffra ancora di più!
È già da molto tempo che vivo così: circa una ventina d’anni. Adesso ne ho quaranta. Prima avevo un lavoro, adesso non più. Ero un impiegato cattivo. Ero villano e ne ricavavo piacere. Dato che non accettavo bustarelle, dovevo pur gratificarmi in qualche modo! (Pessima battuta; ma non la cancellerò. L’avevo scritta pensando che sarebbe risultata molto arguta; ma ora che io stesso mi sono reso conto che volevo soltanto fare spudoratamente lo sbruffone, apposta non la cancellerò!) Quando alla mia scrivania si avvicinavano dei postulanti per chiedere informazioni, io in ris-posta digrignavo i denti e provavo un indicibile godimento allorché mi accorgevo di dare un dispiacere a qualcuno. Mi riusciva quasi sempre. Per la maggior parte era gente timida; ovvio: essendo postulanti. Ma tra quelli arditi ce n’era in particolare uno che non potevo sopportare: un ufficiale. Quello non voleva in alcun modo sottomettersi e faceva sempre tintinnare la sciabola in ma-niera fastidiosa. Per un anno e mezzo fra me e lui ci fu guerra proprio per via di quella sciabola. Infine la spuntai. Egli la smise. Del resto, questo accadeva ancora ai tempi della mia giovinezza. Ma lo sapete, signori, in che cosa consisteva il punto fondamentale del mio essere malvagio? Consisteva in questo, e in questo altresì vi era racchiusa la peggiore infamia: che in ogni momento, perfino nell’istante della rabbia più accesa, io restavo consapevole dentro di me che non solo non ero affatto un individuo cattivo, e neppure inasprito da chissà che, ma soltanto uno che faceva l’astioso co-sì, tanto per farlo, trovando in questo diletto. Si, perché potrei an-che schiumare di rabbia, ma se in quel momento uno di voi mi portasse che so, un pupazzo di stoffa, o una tazza di tè con gli zuccherini, io magari finirei per calmarmi all’istante. Anzi, il mio animo si intenerirebbe, anche se poi, probabilmente, comincerei di nuovo a digrignare i denti contro me stesso e per la vergogna mi toccherebbe soffrire d’insonnia per diversi mesi. Sono fatto così, io.
Comunque poco fa ho mentito sul mio conto, dicendo che ero un impiegato cattivo. Ho mentito per cattiveria. Facevo solo un pò i capricci, tanto con i postulanti che con quell’ufficiale, ma in realtà non avrei mai potuto diventare veramente cattivo. Ero perpetuamente consapevole di come in me vi fossero moltissimi elementi quanto mai in contrasto con ciò. Lì sentivo dentro assalirmi. Spingevano da tutta una vita, cercavano con forza di uscire all’esterno, ma io non li lasciavo, no e no, apposta non lasciavo che si sprigionassero. Mi torturavano fino alla vergogna; mi conducevano fino alle convulsioni e alla fine mi sono anche venuti in odio, come mi sono venuti in odio! Non abbiate in mente, signori, ch’io mi stia pentendo di qualcosa d’innanzi a voi, che vi chieda perdono per chissà che?... Sono certo che ne avete l’impressione... Ma, del resto, vi assicuro che per me non ha importanza se vi pare così...
Non soltanto ho fallito nell’essere malvagio, non ho saputo es-sere niente di niente: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E adesso vegeto nel mio letamaio, punzecchiandomi con la maligna e quanto mai vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, poiché a ciò già è delegato lo stolto. Sissignori, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo ha il dovere, anzi, è moralmente obbligato ad essere una creatura essenzialmente priva di carattere; viceversa l’uomo di carattere, colui che agisce, è una creatura essenzialmente limitata. Questa è da quarant’anni la mia convinzione.
Adesso ho quarant’anni e quarant’anni sono tutta una vita, dico bene? Sono o no la più profonda vecchiaia? Vivere più di quarant’anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre? Rispondete sinceramente, con onestà. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni, nessun’altro. E questa cosa io la dico alla faccia di tutti gli anziani, alla faccia di tutti codesti rispettabili vecchi, di tutti quei vegliardi profumati dalle chiome d’argento! Alla faccia del mon-do intero la dico, questa cosa! Ho il diritto di parlare così, perché io stesso camperò fino a sessant’anni. Fino a settant’anni vivrò, io! Fino a ottant’anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciate un’istante ch’io riprenda fiato...

Probabilmente pensate, signori, che voglia farvi ridere? Vi siete sbagliati anche in questo. Non sono affatto l'uomo allegro che credete o che forse credete; del resto, se voi, irritati da tutte queste chiacchiere (io già lo sento, che siete irritati), avrete l'idea di domandarmi chi sono, in fin dei conti, allora vi risponderò: sono un assessore di collegio. Lavoravo per avere qualcosa da mangiare (ma unicamente per questo), e quando l'anno scorso un mio lontano parente mi lasciò seimila rubli per testamento, diedi subito le dimissioni e mi sistemai nel mio angolo. Anche prima vivevo in quest'angolo, ma adesso mi ci sono sistemato. La mia stanza è squallida, brutta, ai confini della città. La mia serva è una donna di campagna, vecchia, cattiva per stupidità, e per giunta sempre puzzolente. Mi dicono che il clima pietroburghese mi diventa nocivo e che con i miei scarsi mezzi è troppo costoso vivere a Pietroburgo. Tutto questo lo so, lo so meglio di tutti questi esperti e savissimi consiglieri dall'aria saccente. Ma resterò a Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! Non me ne andrò perché... Uff! Ma è assolutamente indifferente che me ne vada oppure no.
E del resto: di che può parlare un uomo perbene con il maggior piacere?
Risposta: di sé.
E dunque anch'io parlerò di me.


IX

Signori, io naturalmente scherzo, e so bene che i miei scherzi non fanno ridere, ma non si può volgere tutto in scherzo. Io, forse, scherzo a denti stretti. Signori, dei problemi mi assillano; risolvetemeli. Ecco, voi, per esempio, volete far perdere all'uomo le vecchie abitudini e correggere la sua volontà, in conformità alle esigenze della scienza e del buon senso. Ma come fate a sapere che l'uomo non solo si possa, ma si debba riformare in questo modo? Da cosa deducete che sia così indispensabile per la volontà umana correggersi? Insomma, come fate a sapere che tale correzione porterà davvero un vantaggio all'uomo? E, se vogliamo dir tutto, perché siete così sicuramente convinti che il non andare contro i veri, normali interessi, garantiti dagli argomenti della ragione e dell'aritmetica, sia davvero sempre vantaggioso per l'uomo e sia legge per tutta l'umanità? Perché finora questa è soltanto una vostra supposizione. Ammettiamo che sia una legge della logica, ma può non esserlo affatto dell'umanità. Voi forse pensate, signori, che sia pazzo? Permettete che chiarisca. Sono d'accordo: l'uomo è un animale essenzialmente creatore, destinato a tendere consapevolmente a uno scopo e a esercitare l'arte dell'ingegneria, cioè a costruirsi eternamente e incessantemente una strada, non importa dove conduca. Ma ecco, forse, ogni tanto ha voglia di svicolare via proprio perché è destinato ad aprirsi quella strada, e ancora, forse, perché per quanto stupido in generale sia l'uomo immediato e d'azione, talvolta tuttavia gli viene in mente che quella strada, a quanto pare, conduce sempre non importa dove e che l'essenziale non è dove vada, ma solo che vada e che il bravo bambino, disdegnando l'arte dell'ingegneria, non si abbandoni a un ozio pernicioso, il quale, come è noto, è padre di tutti i vizi. L'uomo ama creare e costruire strade, questo è indubbio. Ma com'è che ama anche appassionatamente la distruzione e il caos? Ecco, ditemelo un po'! Ma su questo argomento voglio dire io stesso due parole a parte. Non sarà che ama tanto la distruzione e il caos (infatti è indubbio che talvolta li ama molto, è un dato di fatto), perché istintivamente teme di raggiungere lo scopo e di completare l'edificio che sta costruendo? Che ne sapete, forse quell'edificio gli piace solo da lontano, ma non da vicino; forse gli piace solo crearlo, ma non viverci, e preferisce assegnarlo aux animaux domestiques, come formiche, montoni e via dicendo. Le formiche, infatti, hanno tutt'altri gusti. Loro hanno un edificio sorprendente di questo stesso genere, indistruttibile in eterno: il formicaio.

Col formicaio le stimabilissime formiche hanno cominciato, e col formicaio probabilmente finiranno, il che fa molto onore alla loro costanza e positività. Ma l'uomo è creatura frivola e disordinata e, forse, come il giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del raggiungimento del fine, e non il fine in sé. E, chissà (non si può garantire), forse tutto il fine a cui tende l'umanità sulla terra consiste solo in questa continuità del processo di raggiungimento, in altre parole nella vita stessa, e non propriamente nel fine, che, s'intende, dev'essere null'altro che il due più due quattro, cioè una formula, perché due più due quattro non è già più la vita, signori, ma l'inizio della morte. Se non altro l'uomo ha sempre avuto una certa paura di questo due più due quattro, e io ne ho paura anche adesso. Supponiamo che l'uomo non faccia altro che ricercare questi due più due quattro, varchi gli oceani, sacrifichi la vita in questa ricerca, ma di raggiungerli, di trovarli veramente, quant'è vero Dio, ha quasi paura. Perché sente che appena li troverà non avrà più nulla da cercare. Gli operai almeno, terminato il lavoro, riceveranno il denaro, andranno all'osteria, poi finiranno alla polizia: eccoli impegnati per una settimana. Mentre l'uomo dove andrà? Se non altro, ogni volta si nota in lui una specie di imbarazzo al momento di raggiungere scopi simili. Gli piace la conquista, ma non altrettanto l'aver conquistato, e questo, s'intende, è terribilmente ridicolo. In una parola, l'uomo è fatto in modo comico; in tutto questo è evidentemente racchiuso un calembour. Ma due più due quattro è comunque una cosa sommamente insopportabile. Due più due quattro: ma secondo me è soltanto impudenza. Due più due quattro ha un'aria strafottente, vi si piazza in mezzo alla strada con le mani sui fianchi e sputa. Sono d'accordo che due più due quattro è una cosa magnifica; ma se si vuol lodare proprio tutto, allora anche due più due cinque è una cosuccia talvolta molto carina.

E perché siete così fermamente, così solennemente convinti che solo ciò che è normale e positivo - in una parola, solo il benessere, sia vantaggioso per l'uomo? Non si sbaglierà la ragione, sui vantaggi? E se l'uomo non amasse solo il benessere? Forse ama esattamente altrettanto la sofferenza? Forse la sofferenza gli è vantaggiosa esattamente quanto il benessere? E l'uomo talvolta ama pazzamente la sofferenza, addirittura con passione, e questo è un fatto. Qui non c'è neanche bisogno di rifarsi alla storia universale; chiedete a voi stessi, se solo siete uomini e avete vissuto almeno un po'. Per quanto poi riguarda la mia opinione personale, amare solo il benessere è perfino sconveniente, in un certo senso. Che sia bene o male, talvolta anche rompere qualcosa è molto piacevole. Io infatti qui non sono propriamente per la sofferenza, e neppure per il benessere. Sono per... per il mio capriccio e perché mi sia garantito, quando occorre. La sofferenza, per esempio, nei vaudevilles non è ammessa, lo so. Nel palazzo di cristallo è addirittura impensabile: la sofferenza è dubbio, è negazione, e che palazzo di cristallo sarebbe mai, se in esso si potesse dubitare? E intanto sono convinto che l'uomo non rinuncerà mai alla vera sofferenza, cioè alla distruzione e al caos. La sofferenza... ma è l'unica origine della coscienza. Anche se all'inizio ho dichiarato che la coscienza, secondo me, è la più grande infelicità per l'uomo, io so che l'uomo la ama e non la baratterebbe con nessuna soddisfazione. La coscienza, per esempio, è infinitamente superiore al due più due. Dopo il due più due, s'intende, non resterà più niente, non solo da fare, ma neppure da conoscere. Tutto ciò che allora si potrà fare è chiudere i propri cinque sensi e immergersi nella contemplazione. Ebbene, con la coscienza invece, anche se si perviene allo stesso risultato, cioè se anche qui non ci sarà nulla da fare, almeno qualche volta ci si può dare qualche frustatina, e questo è pur sempre vivificante. Per quanto retrogrado, è sempre meglio di niente.





 
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Gastone




Atto Primo



(A sipario calato, il Direttore, presentandosi alla ribalta)

Intervengo, signori, non richiesto. Né mi rivolgo a voi perché questa commedia abbia bisogno della spiegazione dell’argomento, ma unicamente perché l’azione si svolge in un ambiente non conosciuto da tutti.
Il secondo atto, infatti, ha luogo in una pensione per artisti di varietà.
L’autore si è provato a riprodurre questo ambiente, mettendo in evidenza, sia pure umoristicamente, il male a fin di bene, e tutto ciò che a lui ha dato fastidio.
I personaggi della pensione non sono certamente dei più simpatici e la figura del protagonista di queste scene è la più ingrata. Si tratta di una satira feroce, inesorabile, del falso divo di varietà; dell’uomo amorale, però convinto di possedere un profilo divino, uno sguardo irresistibile, un sorriso enigmatico e tenero, insomma una bellezza quasi sovrumana, la cui sola apparizione sulla pedana di un cinema-teatro, o sullo schermo, crede sia sufficiente per stupire gli spettatori e sconvolgere le spettatrici. E troverete anche che il protagonista, il quale ha un cervello incapace di pensare, dice talvolta, nella commedia, battute amare, ironiche ed anche umoristiche che esulano dal personaggio. Ma ciò l’autore ha fatto a bella posta, per farsi perdonare la figura ambigua di Gastone.


(rientra)


Atto Secondo


Primo Quadro



La scena rappresenta un cinema-varietà con un semplice fondale di velluto aderente al boccascena. Gastone, appena alzatosi il sipario, avanza alla ribalta seguendo, con un trotterello da scemo, il ritmo musicale del “refrain” della canzone “Gastone”, eseguito dall’orchestra. Una pausa, due lunghe buffate di fumo aspirate da gran “viveur”. E dopo una lunga pausa, sonnolento, annoiato, stanco, annunzia lentamente:


GASTONE: Gastone, artista cinematografico, fotogenico al cento per cento, numero di centro dl “variété”, “danseur”, “diseur”, frequentatore dei “bal-tabarins” dei “cabarets”, conquistatore di donne a getto continuo, uomo incredibilmente stanco di tutto, uomo che emana fascino.

canta




Gastone, son del cinema il padrone,
Gastone,
Gastone.
Gastone, ho le donne a profusione
E ne faccio collezione,
Gastone,
Gastone.
Sono sempre ricercato
Per le filme più bislacche,
perché sono ben calzato,
perché porto bene il fracche.
Con la riga al pantalone…
Gastone,
Gastone.
Tante mi ripeton: sei elegante!
Bello, non ho niente nel cervello!
Raro, io mi faccio pagar caro:
specialmente alla pensione,
Gastone,
Gastone.

(attraversa il proscenio con un passo di danza che accompagna il “refrain”)

Questa camminata l’ho inventata io.

(si ferma e flemmatico dice il seguente monologo, con molte pause, mentre i violini in sordina, come una melopea, ripetono “ad libitum” il ritornello della canzone. Mostra il guanto attaccato all’altro, che è calzato).

Anche questa cosuccia qui è mia. E’ una cosuccia senza pretensione, ma è mia. Non l’ho fatta neanche registrare. E’ di pubblico dominio. Altri, avrebbe precisato: «Made in Gastone»… E’ una mia trovata e me la scimmiottano tutti i comiciattoli del varietà. I miei guanti biancolatte elegantissimi: guardateli! Però il guanto biancolatte è pericoloso…
Una volta, sorbendo una tazza di latte, distrattamente, mi son bevuto un guanto!... Quante invenzioni ho fatte io! Discendo da una schiatta di inventori, creatori, deformatori… Quanta genialità nella mia famiglia! La cava del genio! Mio padre, per esempio, ha inventato la macchina per tagliare il burro. Cosa semplicissima: un pezzetto di legno alle cui estremità è attaccato un sottilissimo fil di ferro formante un arco.
Naturalmente, per questa invenzione, il mio genitore fu plagiato: soppresso il pezzo di legno, col solo filo – e nemmeno di ferro – han costruito lo strumento per tagliare la polenta… Così… Con le mani e il filo… Ho saputo poi che un tale Marconi, ha fatto tutto senza fili! Pazienza! Tutti abbiamo diritto di vivere. Io, volendo, potrei essere un grande fabbricatore di burro: perché una volta feci questo magnifico esperimento: ero in aeroplano e raggiunsi una tale altezza, che mi trovai… Via Lattea. Naturalmente, l’elica, girando vertiginosamente frullò il latte. Ed io fui costretto a fermarmi per una… “panne di burro! Colavo burro da tutte le parti!… Mia madre? Anche lei una grande inventrice: anzitutto, ha inventato me. E non dico altro! Poi aveva il senso dell’economia sviluppato fino alla genialità: sarebbe stata, certo, una grande economista… Figuratevi: io mi chiamo Gastone. Ebbene, lei mi chiamava semplicemente Tone… quante donne si contenterebbero di mangiare pan… e tone!... Se prometto di assistere ad una prima cinematografica tutti dicono: movie-tone! Eh! a me, m’ha rovinato la guerra! Quante scoperte ho fatto… Io, modestamente, ho scoperto il sapore dell’acqua di Seltz. Che sapore ha l’acqua di Seltz? Sentiamo: non lo sapete? Ebbene, ve lo dico io: l’acqua di Seltz ha il sapore di formicolio ai piedi!... A me, m’ha rovinato la guerra! Se non ci fosse stata la guerra, a quest’ora sarei a Londra.
Avevo “montato” un bel numero, con una bella bambina: una bella pupa… innamorata pazzamente di me! E non se n’era mai accorta: gliel’ho dovuto dire io: sbagliava con un altro!... Era una bella pipetta… Con la guerra me la “rimpatriorno”!... Non era italiana: era slovacca, me la mandarono in Isvizzera…
Mi lasciò solo con una cagnetta: una di quelle cagnette giapponesi con gli occhi di fuori, col pelo lungo e la gamba corta: pareva che camminasse col pelo!... Ma era tanto carina, piccinina, col musetto schiacciato… Un incrocio tra un pechinese e uno “chope” di birra. Dovetti mantenerla io! E non vi dico quanto mi ci volle, per abituarmi a questo!...
Eh, a me m’ha rovinato la guerra! Se non ci fosse stata la guerra, a quest’ora sarei a Londra!... Perché io sono molto ricercato… Ricercato nel parlare, ricercato nel vestire, ricercato dalla Questura… Che bel numero avevo “montato” con la mia duettista! Ad onor del vero, il numero lo aveva “montato” un altro, un celebre “danseur”: Max! Vorrebbe dire Massimo. Ma… Massimo non si dice, è volgare: «il faut dire Max». Si scrive così: M, A e… il numero dieci dell’orologio. Questo Max è un grande della danza. Molti credono che la danza sia una cosa effimera. Invece, questo Max, una volta in una gara di danze, ballò per settantadue ore. Si sballò tutto. A furia di ballare, si sballò. Si logorò. Senz’accorgersene, si era ballato fino alle ginocchia… Il ballo è una cosa seria! E’ una dea: Tersicore!... Sono molto ricercato, perché so far di tutto: sono nato col bernoccolo del palcoscenico. A me, mi ha rovinato la guerra!... Se no, a quest’ora sarei a Londra. I londrini vanno pazzi per me, perché io so fare un po’ di tutto. Cervello eclettico, poliedrico! Sono stato in compagnia di Ruggero Ruggeri, di Zacconi, ho fatto l’imitazione di Fregoli, di Petrolini: so far tutto, canto, ballo, dico, compongo, riduco, trasporto. Tutti mi vogliono, tutti mi ambiscono. In Compagnia drammatica non ci posso restare a lungo, perché basta che io guardi una donna in faccia, diventa madre! Sono stato anche in Compagnia di Operette, ma la “sorbetta” s’innamorò di me… Abusò della mia inesperienza, mi rapì, e mi fece suo! Modestamente sono anche musicista. Dovevo andare a Londra. Già: dovevo musicare l’orario delle ferrovie. A me mi ha rovinato la guerra! Io sono molto ricercato, anche perché porto bene il frac. Io sono nato col frac. Gli altri, quando portano il frac, sembrano incartati. Io invece, lo porto bene, perché quando sono nato, mia madre non mi ha mica messo le fasce, macché!... mi ha messo un fracchettino… Camminavo per strada e sembravo una cornacchia…

canta



Gastone,
sei davvero un bell’Adone!
Gastone…
Gastone,
con un guanto pendolone
vado sempre a pecorone,
Gastone,
Gastone.



da: E. Petrolini – Gastone – Cappelli, Bologna 1932
 
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Almost Blue - Carlo Lucarelli


Almost blue almost doing things
we used to do.
Quasi triste quasi facendo le cose
che eravamo soliti fare.

Elvis Costello, Almost Blue.



Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po' di polvere. Quella del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro chiuso di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost Blue.
A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, così chiusa e modulata da sembrare una lunga o. Al-most-blue... con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi.
Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi.
Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento.
Ascolto.
Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi elettronici che spazzano l'etere a caccia di suoni e di voci e si sintonizzano automaticamente sulle frequenze occupate. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe.
Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardano. Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile. Come in quella favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire, in cui c'era una principessa così bella e con una pelle così fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro.
Per me significava che le dita ci passavano attaverso.
Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L'azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che è il colore del nulla, del niente, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l'idea che contengono. Per il rumore dell'idea che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b, invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi.
Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu.
Ci sono anche colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre con le orecchie, con quelle che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori.
Per questo uso lo scanner. Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle p, piccole e profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere gli occhi. Soprattutto quel pezzo, Almost Blue, che io punto per primo, anche se è l'ultimo. Così tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie, che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto che ho dentro la testa.
Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città.
Io, Bologna, non l'ho mai vista. Ma la conosco bene, anche se probabilmente è una città tutta mia. È una città grande: almeno tre ore.
L'ho sentito una volta che mi sono sintonizzato sul CB di un camion e l'ho seguito per tutto il tempo che è rimasto nel raggio del mio scanner. Da quando è entrato finché non l'ho sentito sparire all'improvviso, il camionista ha sempre parlato con qualcuno, guidato e parlato, guidato e parlato, per tutta la mia città.


 
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A Milano non fa freddo - Giuseppe Marotta (1949)

Cara Milano, il bisogno di scriverti questa lettera d’amore l’ho sentito d’improvviso, una sera dell’attuale severissimo inverno. Era venuto da poco buio: in un minuto, così rapidamente che pensai alla coperta con cui l’assassino appostato soffoca il grido della vittima; io percorrevo, arrivando dal Corso Vittorio Emanuele, l’ultimo tratto della via Agnello fra bottegucce che mi sono care; un odore di pesce fritto e un odore di forno si azzuffarono per decidere quale dovesse accompagnarmi, senonchè intervennero i colori della vetrinetta di un fruttivendolo, le mele cianotiche esclamarono: <<smettetela… Con questo freddo!>> e tutto fu di nuovo gelo e silenzio, la nebbia stivata più oltre nella fossa in cui morì un edificio e sta nascendo un altro mi raccomandò mestizia e brividi, pareva un lago di sospiri.
Rattristiamoci, pensai, è giusto; ma proprio in quell’istante cominciarono a suonare le campane di San Fedele.
Prima di decidere che sono patetico e svenevole ciascuno si fermi presso il muretto provvisorio contro il quale termina la via Agnello (deve essere appena discesa l’oscurità) e aspetti che comincino a suonare le campane di San Fedele.
Non hanno una voce e una forza speciali. Non suonano neppure in dialetto, come altre campane i cui rintocchi si alternano con singolari capricci e diffondono la loro musica in una specie di mistico gergo che i nativi gustano, è naturale, assai più dei forestieri. Macché. Il luogo, l’ora, l’atmosfera, la stagione: ecco i motivi che rendono straordinario il discorso delle campane di San Fedele. Non ci sono stelle, anzi non c’è addirittura cielo? Bene, per qualche lungo minuto il suono delle campane di San Fedele sostituisce firmamento e astri.
Un rintocco dopo l’altro e il ghiaccio dell’aria sembra volersi sciogliere, sono le delicate scosse con cui una madre ridesta la sua creatura addormentata. Non scintillavano così, poc’anzi, le bottiglie sulla mensola del vinaio; vedo che egli apre un rubinetto sul banco: il vino scorre contento, prima era furioso e torvo. Non avrei notato, senza il suono delle campane, le rose sulle guance del conducente del taxi che sta acquistando un sigaro nella tabaccheria; hanno vaghe azzurrità di barba ben rasa, ma sempre rose sono. Sulle scarpe sulle cravatte sugli impermeabili esposti in un’altra vetrina la luce elettrica si rianima, direi che ripiglia il cammino, tanto pareva lontana e ora si accosta e si precisa.
Tutto viene in primo piano, a causa delle campane di san Fedele che stanno parlando: sono la vostra città, serve niente? Una cenetta in quel ristorante, una favola in quel cinema, notizie da quel giornalaio, forse un giocattolo in quel bazar?
L’algida Milano si raccoglie intorno allo scampanio di San Fedele: i suoni sgorgano dal punto meno illuminato della piazza, potete allungare le mani come verso un caminetto acceso e nessuno bada a voi se in un certo senso ve ne riscaldate; io magari l’ho fatto.
Il freddo arriva a Milano dalle Alpi e passa sotto l’Arco della Pace come Napoleone, oppure viene dal Po radendo la via Emilia e la strada pavese: è vento, è corsa fino alle porte della città (Casalpusterlengo, Binasco, Busto Arsizio, eccetera); poi si rassetta, si impettisce ed entra col passo di parata e con la grande uniforme.
Si annette Milano, la presidia.
Sta abbassato ai muri la notte e l’indomani i suoi lentissimi andirivieni di piantone, di sentinella, di sgherro.
Ma lasciate che suonino, caduta la sera, le campane di San Fedele. Avviene allora il miracolo osservato da Giuseppe Giusti in Sant’Ambrogio, quando per un inno di cui vibrò il tempio croati e boemi cessarono di essere stoppa e divennero uomini.
Persuaso da quei rintocchi il freddo trasalisce; quasi dico si rialza; prima era un freddo a blocchi squadrati e taglienti, adesso è un freddo piumato, sfarfallante: un freddo, se volete, caldissimo.
Come palpitano i lembi dei giornali sul portapacchi del ciclista che va a rifornire le edicole di Piazza del Duomo!
Come s’indugia, tentata dalle luci dei Portici, la servetta che rientra con la reticella piena di arance attraversate dalla sbarra verde di un carciofo!
Come svoltano improvvisamente, i fidanzati, nella breve ombra di via Sala dalle fulminee possibilità di baci: fanno così le foglie sulla corrente presso un’ansa del fiume.
Lo squillo della campana minore di San Fedele, come rimbalza giusto sul casco del metropolitano che ha finito di dirigere il traffico e passa cercando di toccar fondo, con le dita, negli enormi guanti bianchi!
I rintocchi scendono, suscitano fuggitive immagini nel nostro cuore e riprendono quota per bussare alle finestre degli uffici: malinconia, tenerezza, speranza, che cosa gradiscono, signori impiegati?
A volte, per un attimo, se così vogliono le campane di San Fedele, un presepio risulta composto di due macchine per scrivere e cento schede e tre paralumi.
Il pretino dalla sottana che rastrella le ombre si faccia il segno della croce per le campane che lo chiamano e per le automobili che lo sfiorano: presente, risponda al Cielo, presente, ma dimostri coerenza, salvi la pelle.
Il custode di biciclette osservi come le piccole dune di ciniglia nel secchio da muratore trasformato in scaldino, si riempiono di punti d’oro, che sia l’alito delle campane a ravvivarle così queste memorie di un’umile fiammata ottenuta mediante assicelle su cui ancora si leggeva <<fragile fragilissimo non capovolgere>>?
Pensavo: proprio sui ricordi soffiano le campane di San Fedele.
Din dan; inverni indulgenti e inverni crudeli mi salutano da lontano. Di chi è la sottile mano gelida cui le mie labbra stanno prendendo le misure?
Il ghiaccio dei Bastioni Garibaldi crepita sotto le nostre scarpe, siamo avvertiti, la terra bussa per dirci che non si assune nessuna responsabilità.
Poi è un altro gennaio e nevica, aspetto all’angolo di via Senato una buona o una cattiva notizia che so io. Olga scende infine da un taxi. La sua faccia è buia. Parliamo con impeto, con rabbia, mentre i fiocchi si infittiscono; a un cero punto la vedo come attraverso una grata bianca, è il momento in cui mi risponde per l’ultima volta di no, è il momento in cui volto le spalle e me ne vado pensando: questo ricciolo di neve mi è caduto dal suo cappellino sulla manica.
Din dan: ecco un amarissimo febbraio sotto piogge larghe come daghe, capaci di tagliare la gente in due; non auguro a nessuno momenti simili, ho perduto l’impiego, qua rifiutano il mio lavoro e là mi negano un prestito, non so se effettivamente diluvia o se sono io che piango, spalanco la porta della chiesa di San Carlo al Corso e dico: proviamo con Dio.
Visitate piazza San Fedele di prima sera e rimanete per cinque minuti in ascolto mentre le campane suonano.
L’immensa città, senza che nessuno lo sappia, si rannicchia presso quelle aeree voci: vi prenderà in grembo; din dan: a Milano non fa più freddo.
 
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filu'
view post Posted on 26/1/2010, 21:21     +1   -1




Il rogo di Berlino 1995, di Helga Schneider

Vienna, primavera 1971

Salimmo in fretta le scale del vecchio palazzo viennese e il cuore mi batteva così forte che non fui capace di suonare il campanello. Lo fece Renzo, mio figlio.
L'avevo cercata a lungo e ora, a distanza di trent'anni da quando mi aveva abbandonata in una Berlino già molto scossa dalla guerra, avevo ritrovato mia madre; viveva a Vienna, nella sua città.
Io, invece, nata in Polonia, vissuta nella Germania nazista e rimpatriata in Austria (paese natio anche di mio padre), ormai mi ero stabilita in Italia; avevo un marito e un figlio.
Quando la porta si aprì, vidi una donna che mi somigliava in modo impressionante. L'abbracciai piangendo, sopraffatta da un'incredula felicità e pronta a comprendere, a perdonare, a mettere una pietra sul passato.
Lei iniziò subito a parlare, a parlare di sé. Nessun tentativo di giustificare il suo abbandono, nessuna spiegazione.
Raccontava. Molti anni addietro l'avevano arrestata nel campo di concentramento di Birkenau, dove faceva la guardiana. Vestiva un'impeccabile uniforme <<che le stava così bene>>. Non erano ancora passati venti minuti che già apriva un maledetto armadio per mostrarmi, nostalgica, quella stessa uniforme. <<<perchè non te la provi? Mi piacerebbe vedertela addosso>>. Non la provai, ero confusa e turbata.
Ma ciò che disse subito dopo fu anche più grave dell'aver rinnegato il proprio ruolo di madre.
<<sono stata condannata dal Tribunale di Norimberga a sei anni di carcere come criminale di guerra, ma ormai non ha più nessuna importanza. Col nazismo ero qualcuno, dopo non sono stata più niente>>.
Mi raggelò. E se lei, nel 1941, aveva deciso di non volere questa figlia, ora ero io a non volere questa madre! Io e mio figlio tornammo in Italia col primo treno. Renzo piangeva deluso. Come avrei potuto spiegargli il motivo per cui io non avevo trovato una madre nè lui una nonna? Aveva solo cinque anni.
Perdetti mia madre per la seconda volta.
Non so se sia ancora viva. Ogni tanto qualcuno mi chiede se l'ho perdonata.

[...]Passeranno altri vent'anni prima che Helga Schneider si decida a ripercorrere la sua infanzia. Ne è nato un libro diversamente implacabile, dove la memoria, anzichè stendere un velo di pietà o di perdono, sembra liberare una rabbia troppo a lungo taciuta; un libro che ci fa rivivere i morsi della fame, la solitudine dei collegi, le angherie di una matrigna, la paura dei bombardamenti, la voce del führer(la f l'ho scritta minuscola di proposito n.d. filu') che echeggia nel bunker della Cancelleria, la lunga reclusione in una cantina: fino al giorno in cui i primi soldati russi avanzano in una Berlino ormai completamente distrutta[...]
 
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view post Posted on 5/10/2021, 16:29     +1   -1
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la larga foglia ruvida del tasso barbasso viene usata dai contadini nei campi per pulirsi dopo l'atto grande
 
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view post Posted on 10/10/2021, 10:32     +1   -1
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" TASSO BARBASSO
La droga è rappresentata da foglie e fiori che contengono mucillagine, saponine, fitosteroli e tracce di olio essenziale. L’uso principale è quello espettorante, dovuto alle saponine, mentre le mucillagini riescono a sfiammare le mucose irritate. I flavonoidi esercitano un’azione blandamente diuretica e i glucosidi relativi sembra abbiano un’attività antinfiammatoria.
La tisana di Tasso barbasso è un vecchio rimedio contro tosse o raffreddore, apprezzata come mucolitica ed espettorante. La bevanda va scrupolosamente filtrata attraverso un panno a maglia fitta, per rimuovere dal liquido anche il minimo residuo di lanugine, potenzialmente irritante.
Nell’uso popolare italiano oltre alla tisana l’utilizzo della pianta era esteso anche all’uso esterno sia per curare l’acne, sia per risolvere le mastiti, sia come cosmetico per rendere i capelli brillanti ed esaltare il colore biondo. Inoltre i fiori erano la base per la preparazione di un unguento per curare i geloni, mentre le foglie fresche erano poste come cicatrizzanti sulle ferite".

Basta. Sono OT
 
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