| Affetto dal male di vivere, il protagonista, pur riconoscendo l'immensa ricchezza racchiusa nel suo intimo, è divorato dall'incapacità di rapportarsi a un mondo esterno, da cui è in qualche modo rifiutato e che egli ossessivamente insegue e rinnega. "Memorie del sottosuolo" Fedor M. Dostoevskij, Edizioni Clandestine 2004
I Sono una persona malata... cattiva. Sono uno che non ha niente di attraente. Credo di avere una malattia al fegato. Anche se d’altra parte non capisco un accidente del mio male e non so cosa ci sia di malato in me. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se della medicina e dei dottori ho rispetto. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; o perlomeno lo sono abbastanza da rispettare la scienza. (Sono sufficientemente colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi e non voglio farlo per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Ovviamente non saprei spiegarvi a chi in tal modo intenda far dispetto con la mia cattiveria; non certo ai medici medesimi non curandomi da loro! E altresì so bene che così nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è giustappunto per cattiveria. Il fegato mi fa male? E allora avanti, che soffra ancora di più! È già da molto tempo che vivo così: circa una ventina d’anni. Adesso ne ho quaranta. Prima avevo un lavoro, adesso non più. Ero un impiegato cattivo. Ero villano e ne ricavavo piacere. Dato che non accettavo bustarelle, dovevo pur gratificarmi in qualche modo! (Pessima battuta; ma non la cancellerò. L’avevo scritta pensando che sarebbe risultata molto arguta; ma ora che io stesso mi sono reso conto che volevo soltanto fare spudoratamente lo sbruffone, apposta non la cancellerò!) Quando alla mia scrivania si avvicinavano dei postulanti per chiedere informazioni, io in ris-posta digrignavo i denti e provavo un indicibile godimento allorché mi accorgevo di dare un dispiacere a qualcuno. Mi riusciva quasi sempre. Per la maggior parte era gente timida; ovvio: essendo postulanti. Ma tra quelli arditi ce n’era in particolare uno che non potevo sopportare: un ufficiale. Quello non voleva in alcun modo sottomettersi e faceva sempre tintinnare la sciabola in ma-niera fastidiosa. Per un anno e mezzo fra me e lui ci fu guerra proprio per via di quella sciabola. Infine la spuntai. Egli la smise. Del resto, questo accadeva ancora ai tempi della mia giovinezza. Ma lo sapete, signori, in che cosa consisteva il punto fondamentale del mio essere malvagio? Consisteva in questo, e in questo altresì vi era racchiusa la peggiore infamia: che in ogni momento, perfino nell’istante della rabbia più accesa, io restavo consapevole dentro di me che non solo non ero affatto un individuo cattivo, e neppure inasprito da chissà che, ma soltanto uno che faceva l’astioso co-sì, tanto per farlo, trovando in questo diletto. Si, perché potrei an-che schiumare di rabbia, ma se in quel momento uno di voi mi portasse che so, un pupazzo di stoffa, o una tazza di tè con gli zuccherini, io magari finirei per calmarmi all’istante. Anzi, il mio animo si intenerirebbe, anche se poi, probabilmente, comincerei di nuovo a digrignare i denti contro me stesso e per la vergogna mi toccherebbe soffrire d’insonnia per diversi mesi. Sono fatto così, io. Comunque poco fa ho mentito sul mio conto, dicendo che ero un impiegato cattivo. Ho mentito per cattiveria. Facevo solo un pò i capricci, tanto con i postulanti che con quell’ufficiale, ma in realtà non avrei mai potuto diventare veramente cattivo. Ero perpetuamente consapevole di come in me vi fossero moltissimi elementi quanto mai in contrasto con ciò. Lì sentivo dentro assalirmi. Spingevano da tutta una vita, cercavano con forza di uscire all’esterno, ma io non li lasciavo, no e no, apposta non lasciavo che si sprigionassero. Mi torturavano fino alla vergogna; mi conducevano fino alle convulsioni e alla fine mi sono anche venuti in odio, come mi sono venuti in odio! Non abbiate in mente, signori, ch’io mi stia pentendo di qualcosa d’innanzi a voi, che vi chieda perdono per chissà che?... Sono certo che ne avete l’impressione... Ma, del resto, vi assicuro che per me non ha importanza se vi pare così... Non soltanto ho fallito nell’essere malvagio, non ho saputo es-sere niente di niente: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E adesso vegeto nel mio letamaio, punzecchiandomi con la maligna e quanto mai vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, poiché a ciò già è delegato lo stolto. Sissignori, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo ha il dovere, anzi, è moralmente obbligato ad essere una creatura essenzialmente priva di carattere; viceversa l’uomo di carattere, colui che agisce, è una creatura essenzialmente limitata. Questa è da quarant’anni la mia convinzione. Adesso ho quarant’anni e quarant’anni sono tutta una vita, dico bene? Sono o no la più profonda vecchiaia? Vivere più di quarant’anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre? Rispondete sinceramente, con onestà. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni, nessun’altro. E questa cosa io la dico alla faccia di tutti gli anziani, alla faccia di tutti codesti rispettabili vecchi, di tutti quei vegliardi profumati dalle chiome d’argento! Alla faccia del mon-do intero la dico, questa cosa! Ho il diritto di parlare così, perché io stesso camperò fino a sessant’anni. Fino a settant’anni vivrò, io! Fino a ottant’anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciate un’istante ch’io riprenda fiato...
Probabilmente pensate, signori, che voglia farvi ridere? Vi siete sbagliati anche in questo. Non sono affatto l'uomo allegro che credete o che forse credete; del resto, se voi, irritati da tutte queste chiacchiere (io già lo sento, che siete irritati), avrete l'idea di domandarmi chi sono, in fin dei conti, allora vi risponderò: sono un assessore di collegio. Lavoravo per avere qualcosa da mangiare (ma unicamente per questo), e quando l'anno scorso un mio lontano parente mi lasciò seimila rubli per testamento, diedi subito le dimissioni e mi sistemai nel mio angolo. Anche prima vivevo in quest'angolo, ma adesso mi ci sono sistemato. La mia stanza è squallida, brutta, ai confini della città. La mia serva è una donna di campagna, vecchia, cattiva per stupidità, e per giunta sempre puzzolente. Mi dicono che il clima pietroburghese mi diventa nocivo e che con i miei scarsi mezzi è troppo costoso vivere a Pietroburgo. Tutto questo lo so, lo so meglio di tutti questi esperti e savissimi consiglieri dall'aria saccente. Ma resterò a Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! Non me ne andrò perché... Uff! Ma è assolutamente indifferente che me ne vada oppure no. E del resto: di che può parlare un uomo perbene con il maggior piacere? Risposta: di sé. E dunque anch'io parlerò di me.
IX
Signori, io naturalmente scherzo, e so bene che i miei scherzi non fanno ridere, ma non si può volgere tutto in scherzo. Io, forse, scherzo a denti stretti. Signori, dei problemi mi assillano; risolvetemeli. Ecco, voi, per esempio, volete far perdere all'uomo le vecchie abitudini e correggere la sua volontà, in conformità alle esigenze della scienza e del buon senso. Ma come fate a sapere che l'uomo non solo si possa, ma si debba riformare in questo modo? Da cosa deducete che sia così indispensabile per la volontà umana correggersi? Insomma, come fate a sapere che tale correzione porterà davvero un vantaggio all'uomo? E, se vogliamo dir tutto, perché siete così sicuramente convinti che il non andare contro i veri, normali interessi, garantiti dagli argomenti della ragione e dell'aritmetica, sia davvero sempre vantaggioso per l'uomo e sia legge per tutta l'umanità? Perché finora questa è soltanto una vostra supposizione. Ammettiamo che sia una legge della logica, ma può non esserlo affatto dell'umanità. Voi forse pensate, signori, che sia pazzo? Permettete che chiarisca. Sono d'accordo: l'uomo è un animale essenzialmente creatore, destinato a tendere consapevolmente a uno scopo e a esercitare l'arte dell'ingegneria, cioè a costruirsi eternamente e incessantemente una strada, non importa dove conduca. Ma ecco, forse, ogni tanto ha voglia di svicolare via proprio perché è destinato ad aprirsi quella strada, e ancora, forse, perché per quanto stupido in generale sia l'uomo immediato e d'azione, talvolta tuttavia gli viene in mente che quella strada, a quanto pare, conduce sempre non importa dove e che l'essenziale non è dove vada, ma solo che vada e che il bravo bambino, disdegnando l'arte dell'ingegneria, non si abbandoni a un ozio pernicioso, il quale, come è noto, è padre di tutti i vizi. L'uomo ama creare e costruire strade, questo è indubbio. Ma com'è che ama anche appassionatamente la distruzione e il caos? Ecco, ditemelo un po'! Ma su questo argomento voglio dire io stesso due parole a parte. Non sarà che ama tanto la distruzione e il caos (infatti è indubbio che talvolta li ama molto, è un dato di fatto), perché istintivamente teme di raggiungere lo scopo e di completare l'edificio che sta costruendo? Che ne sapete, forse quell'edificio gli piace solo da lontano, ma non da vicino; forse gli piace solo crearlo, ma non viverci, e preferisce assegnarlo aux animaux domestiques, come formiche, montoni e via dicendo. Le formiche, infatti, hanno tutt'altri gusti. Loro hanno un edificio sorprendente di questo stesso genere, indistruttibile in eterno: il formicaio.
Col formicaio le stimabilissime formiche hanno cominciato, e col formicaio probabilmente finiranno, il che fa molto onore alla loro costanza e positività. Ma l'uomo è creatura frivola e disordinata e, forse, come il giocatore di scacchi, ama soltanto il processo del raggiungimento del fine, e non il fine in sé. E, chissà (non si può garantire), forse tutto il fine a cui tende l'umanità sulla terra consiste solo in questa continuità del processo di raggiungimento, in altre parole nella vita stessa, e non propriamente nel fine, che, s'intende, dev'essere null'altro che il due più due quattro, cioè una formula, perché due più due quattro non è già più la vita, signori, ma l'inizio della morte. Se non altro l'uomo ha sempre avuto una certa paura di questo due più due quattro, e io ne ho paura anche adesso. Supponiamo che l'uomo non faccia altro che ricercare questi due più due quattro, varchi gli oceani, sacrifichi la vita in questa ricerca, ma di raggiungerli, di trovarli veramente, quant'è vero Dio, ha quasi paura. Perché sente che appena li troverà non avrà più nulla da cercare. Gli operai almeno, terminato il lavoro, riceveranno il denaro, andranno all'osteria, poi finiranno alla polizia: eccoli impegnati per una settimana. Mentre l'uomo dove andrà? Se non altro, ogni volta si nota in lui una specie di imbarazzo al momento di raggiungere scopi simili. Gli piace la conquista, ma non altrettanto l'aver conquistato, e questo, s'intende, è terribilmente ridicolo. In una parola, l'uomo è fatto in modo comico; in tutto questo è evidentemente racchiuso un calembour. Ma due più due quattro è comunque una cosa sommamente insopportabile. Due più due quattro: ma secondo me è soltanto impudenza. Due più due quattro ha un'aria strafottente, vi si piazza in mezzo alla strada con le mani sui fianchi e sputa. Sono d'accordo che due più due quattro è una cosa magnifica; ma se si vuol lodare proprio tutto, allora anche due più due cinque è una cosuccia talvolta molto carina.
E perché siete così fermamente, così solennemente convinti che solo ciò che è normale e positivo - in una parola, solo il benessere, sia vantaggioso per l'uomo? Non si sbaglierà la ragione, sui vantaggi? E se l'uomo non amasse solo il benessere? Forse ama esattamente altrettanto la sofferenza? Forse la sofferenza gli è vantaggiosa esattamente quanto il benessere? E l'uomo talvolta ama pazzamente la sofferenza, addirittura con passione, e questo è un fatto. Qui non c'è neanche bisogno di rifarsi alla storia universale; chiedete a voi stessi, se solo siete uomini e avete vissuto almeno un po'. Per quanto poi riguarda la mia opinione personale, amare solo il benessere è perfino sconveniente, in un certo senso. Che sia bene o male, talvolta anche rompere qualcosa è molto piacevole. Io infatti qui non sono propriamente per la sofferenza, e neppure per il benessere. Sono per... per il mio capriccio e perché mi sia garantito, quando occorre. La sofferenza, per esempio, nei vaudevilles non è ammessa, lo so. Nel palazzo di cristallo è addirittura impensabile: la sofferenza è dubbio, è negazione, e che palazzo di cristallo sarebbe mai, se in esso si potesse dubitare? E intanto sono convinto che l'uomo non rinuncerà mai alla vera sofferenza, cioè alla distruzione e al caos. La sofferenza... ma è l'unica origine della coscienza. Anche se all'inizio ho dichiarato che la coscienza, secondo me, è la più grande infelicità per l'uomo, io so che l'uomo la ama e non la baratterebbe con nessuna soddisfazione. La coscienza, per esempio, è infinitamente superiore al due più due. Dopo il due più due, s'intende, non resterà più niente, non solo da fare, ma neppure da conoscere. Tutto ciò che allora si potrà fare è chiudere i propri cinque sensi e immergersi nella contemplazione. Ebbene, con la coscienza invece, anche se si perviene allo stesso risultato, cioè se anche qui non ci sarà nulla da fare, almeno qualche volta ci si può dare qualche frustatina, e questo è pur sempre vivificante. Per quanto retrogrado, è sempre meglio di niente.
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