"Altre voci" su un argomento che ci riguarda molto da vicino, tutti, e che è e sarà ancora motivo di preoccupazione e riflessione.
Una visione buddista di questo scottante e attuale tema.
Il nome della nostra bellezza
di Gianna Mazzini
Le parole sono importanti. Alla radice del termine lavoro c'è l'idea di un'attività che può essere penosa o creativa, e si è precari quando si ottiene qualcosa per concessione. Ma noi siamo soprattutto Myoho-renge-kyo, il nome della nostra potenza e illimitata possibilitàChe momentaccio, che difficoltà, proprio ora, qui. Far corrispondere alla fatica il valore.
È davvero un momento difficile per parlare di lavoro, ma "straordinariamente" adatto. Perché non c'è persona che io conosca che non stia attraversando un momento di ridefinizione del proprio lavoro: o perché il senso di quel che faceva sta cambiando o perché il lavoro non c'è più.
Vi propongo un giro.
Provare a entrare nel tema passando dalla parola, entrando nell'origine stessa della parola "lavoro".
C'entrano le parole con la vita? Il modo in cui io definisco qualcosa può, in qualche modo, orientare e influenzare l'idea che di quella cosa mi faccio?
Prendiamo la parola "precarietà".
"Precario" è "qualcosa che non dura". È una parola dolorosa, che produce in chi la vive una percezione di sé labile e impotente. "Precarietà" non è solo una parola, è uno stato d'animo, invasivo e avvolgente. Chi si sente precario, precaria, sente un'incertezza che va oltre il fatto di non avere un lavoro a tempo indeterminato. Guardiamo l'origine.
"Precario" viene da prex, prece che significa "preghiera" e ha due significati:
1. ottenuto per preghiera, cioè che si esercita con permesso altrui;
2. che non dura sempre ma quanto vuole il concedente.
Terribile no? Ecco perché è una parola così dolorosa. Anche se non lo so, quando mi sento precaria è questo che sento: dipendere totalmente da una concessione esterna e per un tempo che qualcun altro decide per te. Ecco spiegata quella sensazione.
Andare alla radice di una parola non è mai esercizio fine a se stesso perché le parole trattengono il senso, anche quando vengono usate con un altro significato.
Anche quando noi non ne siamo consapevoli.
Ora possiamo iniziare il giro dentro la parola "lavoro".
Troviamo subito due filoni: il primo viene dal latino labor e si rifà all'idea di lavoro come attività dura e penosa (da qui il francese travail, lo spagnolo trabajo, il portoghese trabalho), parole che derivano tutte da uno strumento di tortura, il tripalium (struttura fatta di tre pali incrociati usata per immobilizzare il condannato, n.d.r.).
Il secondo invece si rifà alle lingue anglosassoni e privilegia l'idea di energia, forza fisica, frutti del lavoro (da cui il tedesco werk e l'inglese work). In questo secondo filone prevale l'idea di lavoro come attività produttiva, creazione di opere e di ricchezza. Non c'è dubbio che la nostra cultura abbia privilegiato il primo dei due: lavoro come attività dura e penosa. Con quel conseguente senso di espiazione, di lavoro inteso come lo svolgimento di un compito staccato dalla mia persona, che mi riguarda solo se è il lavoro che ho sempre sognato, altrimenti no, è solo un modo per guadagnare da vivere. Allora via appena timbrato il cartellino e tutta quella somma di «perché non vedono il mio valore?», «cosa ci sto a fare qui?» e simili che ciascuno può avere incontrato almeno una volta facendo il proprio mestiere.
Va bene, il lavoro è costruzione di sé quando è quello che ho desiderato fin da bambina, quando riesco a viverci bene, quando mi arricchisce e nutre e fa crescere.
Ma se non è così?
Quando il lavoro è davvero pesante, quando non è il lavoro sognato, quando non è un bel lavoro e quel che facciamo sembra non avere nessun senso?
E soprattutto: quando l'abbiamo perso e il lavoro non c'è più, come si fa?
Ecco, vorrei parlare di questo.
«Ad Auschwitz - è Primo Levi che scrive - ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del "lavoro ben fatto" è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale» (Conversazioni e interviste, a.c. di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997).
Questo passo, terribile e bellissimo, dice una cosa vera.
Dice che il lavoro è un'espressione di sé, è opera di sé. O, per dirla con l'economista Luigino Bruni, «che il lavoro è sempre attività spirituale, perché prima e dietro una qualsiasi attività lavorativa, che sia una lezione universitaria o la pulizia di un bagno, c'è un atto intenzionale di libertà, che è ciò che fa la differenza tra un lavoro ben fatto e un lavoro fatto male. Ed è quindi attività umana altissima in ogni contesto nel quale si compie» (Il lavoro e le lenti sbagliate,
http://edc-online.org).
Attività umana altissima.
Come amare, pregare, respirare.
Nel sesto volume del Sutra del Loto si legge: «Nessuna cosa che riguardi la vita o il lavoro contrasta in alcun modo con la vera realtà» (citato in L'offerta del riso, RSND, 1, 998).
Vale a dire che la "vera realtà" attraversa, bagna, pervade le stanze nelle quali lavoriamo, le relazioni che incontriamo. Sta dentro le cose che facciamo, i pensieri, le parole e i gesti.
Il Buddismo lo dice così: anche se nessuno mi vede, ogni gesto, ogni attenzione e cura che metto in quello che sto facendo esiste, resta, si registra, si incide come causa che determinerà un effetto, anzi l'ha già determinato.
Ogni gesto è un mattone del lavoro più importante di tutta la vita: la costruzione di sé.
Come posso pensare di ricavare da quel che faccio l'opera di me?
E soprattutto, mentre faccio quest'opera di me riesco a mangiarci, a pagare l'affitto, a gioire di qualche orizzonte più largo, che so un viaggio?
Scrive il presidente Ikeda: «Ho lavorato per tutta la vita. Anche quand'ero un ragazzino, lavoravo veramente duro. Mio padre era debilitato dai reumatismi e i miei quattro fratelli maggiori furono arruolati nell'esercito uno dopo l'altro. Ero il più grande dei figli rimasti in casa e per questo mi alzavo prima dell'alba e aiutavo la mia famiglia nella coltivazione di alghe. Finito quel lavoro, cominciavo con il giro dei giornali. Una volta tornato a casa da scuola, andavo a consegnare il giornale della sera. Il verbo giapponese che significa "lavorare" (hataraku) etimologicamente indica "dare sollievo" (raku) alle persone che ti circondano (hata). Potevo percepire la verità di queste parole già da molto giovane.
Parte del mio lavoro era inoltre consegnare al grossista le alghe marine raccolte dalla mia famiglia. Mi ricordo che gli dicevo con orgoglio: "Le alghe coltivate dalla mia famiglia sono le migliori" e lui rispondeva: "Lo sono di sicuro"» (BS, 141, 50).
Ogni volta che leggo le parole del mio maestro sento uno spostamento del cuore.
E un allargamento di prospettiva anche. Tutte le costruzioni, tutti i pensieri, anche belli, fatti fino a quel momento s'infragiliscono e lasciano spazio a un punto di vista semplicemente cristallino. Lavorare è dare sollievo a chi ti circonda. Nell'idea stessa del lavoro c'è non solo la possibilità di una creazione di sé ma di creazione di mondo.
Spunta evidente, come un improvviso dietro l'angolo, l'ingratitudine.
Che non vuol dire non vedere le cose che mi accadono o darle troppo per scontate, vuol dire proprio dimenticarsi che essere buddisti, buddiste obbliga a un cambiamento del punto di vista sulle cose. Questo per me non è un momento facile, faccio un lavoro che ha a che fare con la cultura e in tempi di crisi la cultura si taglia, zac, serve altro, cose che si toccano. È un momento in cui sembra non muoversi nulla, pochi progetti, poche certezze.
Potrei attaccarmi già a questo per manifestare ingratitudine nei confronti della vita che così poco tiene in conto ciò che per me conta di più.
L'ingratitudine è la base da smantellare per vincere. Non è un dettaglio, è il centro.
Occasioni per manifestarla, l'ingratitudine, si nascondono ovunque: le difficoltà con chi comanda, con chi ci lavora accanto, una retribuzione scarsa, insomma tutto ciò che può produrre uno svilimento di sé. La crisi dice che non c'è lavoro, che «se tu rifiuti questo ne trovo altri cinquanta che lo fanno, magari anche per meno». «Tu non conti, tu non fai la differenza».
La filosofa Simone Weil, in un suo pezzo commovente scritto molti anni fa, lo spiega bene quando dice che potenti e sottoposti, scienziati e quadri, tecnici e impiegate, bagnini e commesse, tutti, tutte, egualmente soggiacciamo alla più grande delle oppressioni: l'insignificanza della nostra unicità, la sensazione di non poter incidere, essere dimenticabili, alternabili, sostituibili. Pezzi di ricambio usa e getta.
E questo è il momento storico di massima espressione di questo modo di intendere la vita. Massima espressione ma anche massima crisi.
Il mondo intero sta cambiando, non solo io.
Siamo a un passaggio epocale. A un punto di non ritorno in cui pensare di tamponare anziché cavalcare il cambiamento non è una scelta vincente. Nei periodi storicamente più tranquilli ognuno, ognuna di noi cambia a un ritmo e in momenti differenti. Poi ciclicamente accade, qua e là nel tempo, che si addensino curve molto più grandi: cambiano gli equilibri, cambiano i problemi, cambia il mondo, si cambia tutti insieme.
E questo è uno di quei momenti.
Usare massimamente la crisi per cambiare quello che di me non ho ancora cambiato, pregare come non ho mai fatto, non per farcela, per sfangarla, ma per vincere.
La realtà non è un macigno inamovibile, è la vita che cambia in ogni istante, e anche ora sta accadendo, la realtà, proprio ora mentre scrivo, sta cambiando.
Che fare?
Pregare e fare qualsiasi cosa al meglio come quel muro di cui parla Levi.
Perché «nessuna cosa che riguardi la vita o il lavoro contrasta in alcun modo con la vera realtà». Il lavoro è un'attività umana altissima in ogni contesto nel quale si compie. Anche nel più oscuro e avvilente dei momenti c'è la possibilità di incidere e cambiare, ridisegnarne i tratti e abbellire.
Vi ricordate il potere delle parole?
Che se mi sento precaria, sono tutto quello che quella parola significa, cioè "dipendente da un potere altrui per un tempo che quell'altrui decide". Che se mi sento povera sono incapace di comprare le cose e persino di desiderarle. Ma prima di essere precario e precaria, povero o povera, io sono soprattutto Myoho-renge-kyo. Dunque perfettamente dotato, dotata. Immensamente potente, immensamente capace di cambiare e di far felice me e gli altri. Profondamente consapevole che le difficoltà che incontro sono la mia missione.
Lo svilimento di sé sembra sempre venire da fuori, eppure non è così: la sfiducia nel proprio valore parte sempre da dentro.
Riprendo a desiderare. Io sono Myoho-renge-kyo. Noi siamo Myoho-renge-kyo. E Myoho-renge-kyo è il nome della nostra bellezza.
Si tratta di riappropriarsi della propria umanità: e questo si fa pregando.
Se l'ingratitudine spunta improvvisa e automatica, il valore di me, invece, lo devo andare a cercare. È un'azione pervicace, silenziosa, testarda, da ripetere ogni giorno. L'ingratitudine sta nell'ottava coscienza, è la somma di ripetute reazioni a quello che non capisco. La Buddità sta nella nona, più giù, più profonda, più felice, la stessa per tutti.
Lì va cercata quella sensazione di potenza e illimitate possibilità capaci di aprire le porte chiuse, gli spiragli dove non passa più luce e inventare strade dove non ce ne sono.
Allora quello che faccio io quando lavoro sarà hataraku: "portare sollievo a chi mi circonda" e anche ricevere in cambio un valore.
Perché il mondo cambi (e perché io vinca) si passa di qui: dalla fede.
Pregare e fare qualsiasi cosa al meglio, magnifico programma.
I gesti da fare: i migliori possibili qui dove sono.
Buddismo e Società n.155 novembre dicembre 2012