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Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli

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view post Posted on 1/1/2016, 17:55     +1   -1
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Inesattezze, bugie ed imprecisioni
sulla storia di Napoli

di Achille della Ragione



Libri sulla storia di Napoli e sulla napoletanità ne esistono a migliaia e se ne continuano a stampare senza sosta. Molti, innamorati della città, si improvvisano scrittori, copiando da precedenti pubblicazioni ed aumentando oltre misura il numero dei volumi dedicato all’argomento.

Tanti illustri sconosciuti che cercano di aggiungersi a nomi famosi ed autorevoli quali Vittorio Paliotti, Aurelio De Rose e Pietro Gargano.

Ma anche questi ultimi non sono immuni da errori e scopo di questo articolo e di altri che seguiranno è quello di mettere in luce una serie di inesattezze, se non vere e proprie castronerie, che si raccontano sulla storia di Napoli e dei Napoletani.

Un terreno particolarmente fertile di imprecisioni è costituito dal capitolo: Napoli capitale delle reliquie, che si trova in qualunque libro che tratta di storia della città, oltre che di tradizioni e superstizioni.

Dovunque leggiamo che nelle chiese, oltre a quello celeberrimo di San Gennaro, si conservano decine e decine di ampolle di altri santi, che contengono sangue che si coagula in particolari giorni dell’anno.

Fatta eccezione per quello di S. Patrizia (fig. 01), venerata in San Gregorio Armeno, il quale ogni martedì compie il prodigio, invano cerchereste altrove altre ampolle miracolose…

Sono da tempo irreperibili nei luoghi ove viene riferito si trovino, come nel caso del sangue di S. Alfonso Maria dei Liguori, che dovrebbe trovarsi nella chiesa della Redenzione dei captivi a Port’Alba, ma dove manca all’appello da tempo immemorabile.

E se pure altrove riuscite a trovare in altre chiese delle reliquie, esse non producono alcun fenomeno a memoria di uomo.

La situazione si fa più comica se vi mettete alla ricerca delle famigerate ampolle (circa cento) contenenti coaguli di sangue di santi e beati, di proprietà di antiche famiglie napoletane.

La notizia viene riferita in tutti i libri che trattano dell’argomento, alcuni addirittura dal titolo la Città dei sangui, ignorando che in italiano la parola sangue non possiede il plurale.

Alcuni mesi fa mi sono personalmente messo alla ricerca di una di queste ampolle, per cui ho cominciato a chiedere a tutti coloro che ne avevano parlato nei loro scritti, il nome di almeno una famiglia che le possedesse.

Oltre ai tre famosi napoletanisti citati all’inizio mi sono rivolto senza esito a Pietro Treccagnoli, Paolo Jorio, Marino Niola ed a molti altri, arrivando alla conclusione che trattasi di una leggenda metropolitana, priva di alcun fondamento storico.

Tutti hanno candidamente dichiarato che avevano riportato la notizia semplicemente perché altri la avevano riferita.

E rimanendo in campo ematologico segnaliamo che nella cappella destra della navata della chiesa dedicata a San Gennaro (fig. 02), posta sulla Domiziana nel comune di Pozzuoli, si venera la pietra sulla quale, secondo la tradizione, è stato decapitato il santo, la quale attira numerosi fedeli da ogni dove e in qualsiasi periodo dell'anno, poiché nei giorni che precedono l'anniversario della sua decapitazione le presunte tracce di sangue appartenenti al santo assumono ogni giorno di più un colore rosso rubino, mentre durante tutto il resto dell'anno la pietra è nera.

Secondo studi recenti si è però dimostrato in maniera incontrovertibile che la pietra è in realtà il frammento di un altare paleocristiano di due secoli posteriore alla morte del martire sul quale si sono depositate tracce di vernice rossa e di cera e che il tutto è solo frutto di una suggestione collettiva.

Se ci portiamo ora in ambito artistico le boiate aumentano considerevolmente, perché la fonte di tutti i napoletanisti, professionisti e dilettanti, è il De Dominici, biografo settecentesco, dotato di un acuto occhio con il quale sa discernere un pittore dall’altro, ma nello stesso tempo dotato di una fervida fantasia, con la quale condisce di particolari del tutto inventati la vita dei protagonisti del suo libro: Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, pubblicato in tre tomi tra il 1742 ed il 1745.

Il caso più eclatante è senza dubbio quello di Diana De Rosa (fig. 03), la famigerata Annella di Massimo, moglie del pittore Agostino Beltrano e pittrice anch’ella, nell’ambito della scuola stanzionesca.

Diana era la sorella maggiore di Pacecco De Rosa (non la nipote come spesso riferito) e, secondo il celebre biografo, allieva dello Stanzione «cara al maestro come collaboratrice in pittura e, per la sua bellezza, come modella».

Anche le sue sorelle Lucrezia e Maria Grazia, la quale sposò Juan Do, un altro artista, erano molto belle e con Diana furono soprannominate le «tre Grazie napoletane», vezzeggiativo che fu poi ereditato dalle tre figlie di Maria Grazia, anch’esse bellissime.

Pur se citata dalle fonti e resa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pittrice senza opere» che possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono soltanto i dati anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota Giurleo.

Il De Dominici ciarlava che Annella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale si recava spesso da lei, anche in assenza del marito per controllare i suoi lavori e per elogiarla.

Una serva della pittrice, che più volte era stata redarguita dalla padrona per la sua impudicizia, incollerita da ciò, avrebbe riferito, ingigantendone i dettagli, della benevolenza dimostrata dal «Cavaliere» verso la discepola, scatenando la gelosia di Agostino, il marito, il quale accecato dall’ira, sguainata la spada, spietatamente le avrebbe trafitto il seno.

A seguito di questo episodio il Beltrano, pentito dell’enormità del suo gesto ed inseguito dall’ira dei parenti di Annella, si rifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove visse molti anni prima di ritornare a Napoli.

Oggi la critica, confortata da dati inoppugnabili, tra cui la documentazione che morì nel suo letto dopo avere ricevuto l’estrema unzione, non crede più a tale favoletta, anche se il nomignolo di «Annella di Massimo» che dal Croce al Prota Giurleo, dal Causa a Ferdinando Bologna unanimemente si credeva fosse stato inventato in pieno Settecento dal De Dominici è viceversa dell’«epoca», essendo stato rinvenuto in alcuni antichi inventari: in quello di Giuseppe Carafa dei duchi di Maddaloni nel 1648 ed in quello del principe Capece Zurlo del 1715. In entrambi vengono riferiti dipinti assegnati alla mano di «Annella di Massimo».

Questa nuova constatazione fa giustizia della vecchia diatriba tra il comune di Napoli ed il Prota Giurleo, indispettito che una strada della città fosse dedicata ad un nome inesistente e convinto che dovesse ritornare all’antico toponimo di via Vomero Vecchio.

Nonostante questa realtà di dati non vi è scrittore di storia napoletana che non ci racconti la sua fine violenta, un vero e proprio femminicidio ante litteram, oggi tanto di moda.

Passiamo a Mattia Preti, il famoso cavaliere calabrese, uno dei giganti della pittura italiana ed ascoltiamo il racconto del De Dominici, ripreso in tutti i libri su Napoli: “Siamo nel 1656, nel pieno infuriare della peste, il pittore si presenta ad una delle porte di accesso della città e, qualificatosi come sommo artista, chiede di poter entrare, ma riceve un diniego da parte del comandante del picchetto di guardia. Senza scomporsi il Preti estrae lo stiletto e trafigge l’interlocutore, al che, i soldati spaventati da tanto ardire, gli cedono il passo e l’ingresso entro le mura. Scatta in breve una condanna a morte con la possibilità di commutare la pena nell’esecuzione di una importante committenza: affrescare le sette porte della città con dei giganteschi ex voto di ringraziamento (fig. 04) per la cessazione della peste, che saranno eseguiti in maniera magistrale, ma non certo dopo aver patteggiato la pena, perché il Preti, come ha dimostrato in maniera inconfutabile Spike, uno studioso americano, massimo esperto dell’artista, che ha reperito alcuni documenti che attestano che il Preti risiedeva a Napoli già nel 1653, tre anni prima che infuriasse la peste!!!

E passiamo ora a raccontare la vera storia della sfogliatella (fig. 05), ben diversa da quella descritta in tutti i libri su Napoli.

La cucina napoletana è una delle più famose del mondo con alcuni piatti come gli spaghetti al pomodoro e la pizza che rappresentano un simbolo della gastronomia italiana all’estero.

Meno gloriosa la pasticceria, ma con le dovute eccezioni, perché alcuni dolci sono molto conosciuti ed apprezzati come il sanguinaccio, la pastiera, gli struffoli, le zeppole di San Giuseppe e la sfogliatella.

Meno noti, ma non meno saporiti: il casatiello, i taralli, il babà, i mostaccioli, i biscotti all’amarena, la pasta reale, la coviglia al caffè, i croccanti, la pizza di amarena e crema.

Nel Seicento andavano di moda tanti piccoli dolcetti, come quelli puntigliosamente descritti nei quadri di natura morta da Giuseppe Recco o da Tommaso Realfonso, infarciti di miele e di marmellate, da mangiare letteralmente con gli occhi prima che con la bocca, tanta era la cura nel prepararli e la gentilezza nell’offrirli.

I pittori napoletani erano abili quando rappresentavano fiori o frutta nel renderla talmente somigliante all’originale che, senza esagerazione, si poteva percepire l’odore ed il sapore, per cui raffigurando dolci e dolcetti ed avvicinandosi alla tela all’osservatore veniva letteralmente l’acquolina in bocca.

Erano la gioia dei salotti della nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page della città, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della nobiltà, che alternavano la preghiera ed il raccoglimento alle delizie del palato, gustando dolci, senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate.

Lo testimoniano i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperito nell’archivio del Banco di Napoli.

Tra i dolci partenopei il più famoso è certamente la sfogliatella della quale esistono tre tipi: riccia, frolla e la S. rosa. Tutte hanno un ripieno identico e tre involucri e fogge diverse, le ricce a forma di conchiglia rivestite da un nastro di pasta sfoglia, tonde e morbide le frolle, più grandi ed arricchite di crema e confettura di amarene le S. rosa.

Molti credono che la sfogliatella nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di Conca dei Marini sulla costiera amalfitana, intorno al XV°-XV° secolo, frutto dell’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napoletani, da Santa chiara alla Croce di Lucca, scopriremmo che tutti ritengono che il famoso dolce sia nato nelle proprie cucine e dirimere la verità è impresa ardua.

La scoperta recentissima di alcuni documenti in lingua latina ci permette di retrodatare l’invenzione del prelibato dolce ad oltre duemila anni fa.

Pare infatti che già durante le feste priapiche, che si svolgevano nell’antica grotta di Piedigrotta, venisse distribuito ai contendenti per rifocillarsi un dolce energetico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggetto del contendere: il pube femminile.

Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovani impegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti di un poderoso zabaione. nella grotta si svolgeva anche il culto a Venere genitrice, praticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità.

Il rito si svolgeva durante tutto il mese di settembre sia all’interno che all’esterno della cripta. Alcuni volenterosi e ben dotati sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, tra i quali probabilmente anche l’iperglicemica antenata della sfogliatella, si attivavano in maniera biblica per ingravidare quante più donne possibile.

Petronio, Seneca e Strabone ci raccontano che, mentre all’interno ci si impegnava per la riproduzione della specie, all’esterno, tra anfratti e cespugli, la plebe si abbandonava, al ritmico suono di rudimentali strumenti musicali, a multipli amplessi, in un’atmosfera delirante di eccitazione.

Dagli espliciti riti orgiastici al segreto del claustro è difficile ipotizzare il tortuoso cammino della ricetta, divenuta segreta e vanto di sacerdotesse della castità.

Ma intorno al Seicento qualcuna di queste monachelle, ansiosa di liberarsi del fardello di una noiosa verginità, fa amicizia con qualche baldo pasticciere, disposto in cambio della ricetta a compiere il pasticcio… ed ecco che della sfogliatella possono godere tutti.

Con un pizzico di fantasia questa dovrebbe essere la nuova storia della sfogliatella, vanto indiscusso della gastronomia campana e da oggi in poi quando una fanciulla offrirà il prelibato dolce ad un astante le sue intenzioni saranno ben chiare.

28/12/2015


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CITAZIONE (kai mimiki @ 1/1/2016, 17:55) 
Fonte napoli.com

Inesattezze, bugie ed imprecisioni
sulla storia di Napoli

di Achille della Ragione





E passiamo ora a raccontare la vera storia della sfogliatella (fig. 05), ben diversa da quella descritta in tutti i libri su Napoli.


Molti credono che la sfogliatella nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di Conca dei Marini sulla costiera amalfitana, intorno al XV°-XV° secolo, frutto dell’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napoletani, da Santa chiara alla Croce di Lucca, scopriremmo che tutti ritengono che il famoso dolce sia nato nelle proprie cucine e dirimere la verità è impresa ardua.

La scoperta recentissima di alcuni documenti in lingua latina ci permette di retrodatare l’invenzione del prelibato dolce ad oltre duemila anni fa.

Pare infatti che già durante le feste priapiche, che si svolgevano nell’antica grotta di Piedigrotta, venisse distribuito ai contendenti per rifocillarsi un dolce energetico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggetto del contendere: il pube femminile.

Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovani impegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti di un poderoso zabaione. nella grotta si svolgeva anche il culto a Venere genitrice, praticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità.

Il rito si svolgeva durante tutto il mese di settembre sia all’interno che all’esterno della cripta. Alcuni volenterosi e ben dotati sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, tra i quali probabilmente anche l’iperglicemica antenata della sfogliatella, si attivavano in maniera biblica per ingravidare quante più donne possibile.

Petronio, Seneca e Strabone ci raccontano che, mentre all’interno ci si impegnava per la riproduzione della specie, all’esterno, tra anfratti e cespugli, la plebe si abbandonava, al ritmico suono di rudimentali strumenti musicali, a multipli amplessi, in un’atmosfera delirante di eccitazione.

Dagli espliciti riti orgiastici al segreto del claustro è difficile ipotizzare il tortuoso cammino della ricetta, divenuta segreta e vanto di sacerdotesse della castità.

Ma intorno al Seicento qualcuna di queste monachelle, ansiosa di liberarsi del fardello di una noiosa verginità, fa amicizia con qualche baldo pasticciere, disposto in cambio della ricetta a compiere il pasticcio… ed ecco che della sfogliatella possono godere tutti.

Con un pizzico di fantasia questa dovrebbe essere la nuova storia della sfogliatella, vanto indiscusso della gastronomia campana e da oggi in poi quando una fanciulla offrirà il prelibato dolce ad un astante le sue intenzioni saranno ben chiare.

28/12/2015


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La caduta di un mito! :nonsifa:


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view post Posted on 12/1/2016, 22:23     +1   -1
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Inesattezze, bugie ed imprecisioni
sulla storia di Napoli (2ª puntata)
di Achille della Ragione

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Una invenzione, creata dalla fertile fantasia del De Dominici, attribuisce ad Aniello Falcone ed ai pittori della sua bottega una partecipazione attiva nei rivolgimenti popolari del 1647.

Il biografo, oltre a sbagliare la data di nascita e di morte del pittore, racconta che “armati di tutto punto, di giorno giravano uccidendo quanti più spagnoli avessero incontrati, e di notte attendevano a dipingere alacremente, e specialmente a ritrarre le sembianze di Masaniello”.

Questa favola, a parte i dettagli inverosimili, come la protezione accordata dal Ribera, che, viceversa, si vantò sempre della sua hispanidad e nonostante il silenzio delle numerosissime e particolareggiate cronache di quella rivoluzione, è tra quelle invenzioni che hanno avuto maggior fortuna.

Per amor del vero, come accertato dal Faraglia, una Compagnia della morte agì in città, ma alcuni anni dopo, nel 1650, e ne fecero parte malandrini e non pittori.

Passiamo ora ad un errore linguistico nella dizione della dinastia che ha regnato a Napoli dal 1734 al 1861 commesso anche da illustri studiosi, in primis il venerato Benedetto Croce.

Anche Alfonso Scirocco, celebre storico specialista di alcuni protagonisti del nostro Risorgimento, era di questo parere, che espresse anche quando partecipò, alcuni anni orsono, in veste di relatore, al salotto culturale di mia moglie Elvira, nel quale, nel corso del dibattito, gli fu posta la domanda se lui ritenesse più corretta la dizione Borbone o Borboni ed il professore, senza esitazioni, si pronunciò per la forma al plurale.

Un parere in linea con quello del professor Galasso, come ebbi modo di constatare nel corso di una presentazione di un libro alla mitica Saletta rossa Guida a Portalba, mentre Paolo Mieli sposava la tesi del singolare.

Ne seguì un colto articolo sul Mattino di Titti Marrone, presente come moderatrice, molto equilibrato, che aveva una conclusione equidistante tra le due ipotesi.

In seguito ebbi il privilegio di accompagnare Umberto Eco in una visita guidata al museo di Capodimonte e così approfittai per chiedere il suo parere, che fu decisamente per il singolare.

Convenimmo di comune accordo che Benedetto Croce era all’origine di questa confusione, perché aveva scritto sull’argomento più volte adoperando il plurale.

Spesso viene citata una lettera di Ferdinando II con la firma Borboni, naturalmente non fa testo, ben conoscendo il livello culturale del sovrano, come pure la lunga disquisizione sulle famiglie europee che acquisiscono la dizione Bourbon al plurale, essendo nozione elementare che alcune lingue, ad esempio inglese o francese, a volte hanno il plurale per i cognomi, errore gravissimo per l’italiano.

A conferma di ciò che pensavo richiesi tempo fa un parere all’ancora attiva ed autorevolissima Accademia della Crusca, la quale si espresse senza esitazioni per la forma singolare, conclusioni che comunicai alla stampa attraverso una lettera, pubblicata da numerosi giornali, anche non napoletani.

Nonostante questa autorevole dichiarazione, che dovrebbe chiudere definitivamente la questione, sono certo che la lunga diatriba linguistica continuerà certamente immutata, avendo sulle opposte sponde autorevoli personaggi, da un lato i professori Scirocco e Galasso, dall’altro Mieli ed Eco e troverà una soluzione definitiva solo nel tempo, essendo la nostra una lingua viva, che macina lentamente le parole.


* * *

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Su Achille Lauro esistono infinite leggende, ma soprattutto falsità storiche, che solo da poco ed a fatica, anche gli studiosi più autorevoli cominciano a riconoscere e finalmente si potrà scrivere la vera storia del sacco edilizio.

La celebre Tavola Strozzi conservata nel museo di Capodimonte ed ancor più la Veduta di Napoli a volo d’uccello di Didier Barra del museo di San Martino ci mostrano una città densamente urbanizzata già nei secoli scorsi.


Un gigantesco marasma architettonico, un prodigioso spettacolo di entropia edificatoria, che ha lasciato stupefatti ingegneri e sociologi, antropologi e forestieri, principalmente questi ultimi che, quando venivano a visitare la nostra città, soprattutto negli anni del Grand Tour, rimanevano meravigliati alla vista di palazzi a più piani, da loro giudicati veri e propri grattacieli.

Questi antichi dipinti sono la testimonianza visiva di un’edificazione selvaggia che comincia in epoca remota e la cui storia è ignota agli stessi studiosi. 


Condoni, sanatorie, demolizioni, leggi stralcio, ricorsi al Tar, la querelle infinita sull’emergenza abusivismo in Campania e non solo nella nostra regione ha una storia antica, che pochi conoscono, perché per anni si è voluto far coincidere, da parte di una storiografia sinistrorsa il sacco della città con gli anni del regno di Lauro. 


E per diffondere questo dogma ci si è serviti impunemente di tutti i mass media disponibili, dal cinema alla televisione, dai giornali ai libri ed alla fine addirittura anche della tradizione orale. 


Un film cult, come “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, girato nel 1963, un plateale falso storico, è stato per decenni adoperato dalle sinistre per propagandare il mito di Lauro speculatore edilizio. 


La storia è diversa e nasce nel lontano Cinquecento da una Prammatica di don Pedro da Toledo, che concedeva entro le mura di costruire palazzi di molti piani e non si è mai interrotta fino ai nostri giorni.

Vogliamo provare a raccontarla, soprattutto ai giovani, questa veritiera storia del sacco edilizio, rinviando, per chi volesse approfondirla, ai capitoli ad essa dedicati del mio libro Achille Lauro Superstar (consultabile su Internet). 


Partiamo dall’esame della legislazione urbanistica e da alcune considerazioni. 
Napoli in questo secolo ha avuto due soli piani regolatori, quello “fascista” del 1939, un vero monumento di armonia tra interessi pubblici e privati, com’è riconosciuto oggi da autorevoli specialisti, di idee non certo nostalgiche, come il preside di architettura Benedetto Gravagnuolo o il professor Massimo Rosi (opinioni raccolte dalla viva voce degli interessati nel corso di riunioni svolte nel salotto culturale di mia moglie Elvira Brunetti) e quello “democratico” del 1972, entrambi mai operativi per la mancata approvazione dei regolamenti di attuazione. 


Bisogna precisare che, quando Lauro venne eletto nel 1952 e volle utilizzare a piene mani il “petrolio dei meridionali”, costituito dall’espansione edilizia, la giunta non possedeva un vero e proprio strumento urbanistico, ma un ben più modesto regolamento edilizio, risalente al 1935, stilato da un organo comunale fascista dotato dei più ampi poteri. 
Napoli da oltre 50 anni vive in assenza di un qualsivoglia strumento progettuale ed i risultati sono stati, e certamente non solo durante gli anni del laurismo, il disordine edilizio più incontrollato, il cui caotico sviluppo ha tenuto conto solo delle esigenze dei singoli, trascurando, com’è nostra scellerata abitudine, quelli della collettività. 


Non si è mai smesso di costruire, basta, per convincersene, recarsi nei quartieri periferici (Soccavo, Pianura, Secondigliano) cresciuti a dismisura o nell’immenso hinterland partenopeo, da Quarto Flegreo ai comuni della penisola sorrentina, che stringe oramai in una morsa implacabile la città, costretta a sopravvivere con densità di popolazione superiore a tutte le più affollate metropoli asiatiche e con un traffico impazzito, con inestricabili ingorghi a croce uncinata, da fare impallidire a confronto qualunque altro concorrente. 


Si sono costruite le case le une vicino alle altre, spinti certamente dal profitto, ma anche perché il napoletano, geneticamente abituato al “gomito a gomito”, prova un’intollerabile vertigine quando può allargare lo sguardo su un panorama senza trovare la casa dirimpettaia, senza poter contare su un’economia da vicolo, una socializzazione da cortile, tutto sommato una cultura da casbah. 


Solo così possiamo cercare di spiegarci l’esistenza di mostri serpentinosi come via Jannelli o via San Giacomo dei Capri ed altri agglomerati sorti nel Vomero alto, dove i suoli costavano poco o niente e si poteva tranquillamente speculare anche costruendo a distanza più civile gli edifici. 


Nonostante il cambio di padrone, l’atmosfera di Palazzo San Giacomo non cambia, perché Correra, commissario prefettizio inviato dal governo per preparare le elezioni, comincia a tessere una trama sottile con l’entourage di costruttori e speculatori che gravitavano intorno al Comandante. 


Una vera e propria corte dei miracoli, abituata a feroci contrattazioni sottobanco che cercava di disciplinare attraverso il rubinetto dei fidi e delle fidejussioni bancarie, concesse da istituti di credito, in primis il Banco di Napoli, saldamente in pugno alla Democrazia Cristiana. 


Correra doveva gestire per pochi mesi l’ordinaria amministrazione e preparare la nuova consultazione elettorale, regnò viceversa incontrastato per quasi tre anni, divenendo il vero padrone della città. 


La febbre edilizia raggiunse temperature da cavallo e ben si espresse nell’erezione del grattacielo della “Cattolica”, in pieno centro cittadino salutata dall’onorevole democristiano Mario Riccio, il medesimo che aveva attaccato in Parlamento Lauro per il suo eccessivo impegno edificatorio, con frasi talmente toccanti da commuovere l’uditorio presente all’inaugurazione. 


Tra il numeroso pubblico, impettiti in prima fila i colonnelli del nuovo potere, sordi alle civili proteste, che Francesco Compagna manifestava nei suoi articoli sulla rivista “Nord e Sud”. 


Mentre si progettava lo sventramento dei Quartieri Spagnoli per creare un nuovo Rione Carità, le nuove edificazioni cominciano a coprire ogni spazio libero. 


Sono questi i veri anni delle “Mani sulla città”, quando costruttori senza scrupoli, trasferitisi in massa dalla corte laurina al nuovo potere, come Mario Ottieri, scaricano sul territorio urbano volumi edificati mai visti in precedenza; per essere più precisi: oltre diecimila vani in meno di due anni per una massa di duecentomila quintali di cemento e quasi cinquantamila di ferro (dati riguardanti il solo Ottieri). 


Le sue imprese distruggono l’armonia del centro più antico, come nella storica piazza Mercato dove l’orrendo palazzaccio, sorto in pochi mesi, fa tuttora rivoltare nella tomba i tanti napoletani illustri, alle cui gloriose gesta è legata la sacralità dei luoghi. 


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Anche nella città nuova, al Vomero, si pongono saldamente le basi della perpetua invivibilità, erigendo monumenti alla vergogna, come la stupefacente “muraglia cinese” di via Aniello Falcone, che ancora oggi molti si ostinano a collegarne la costruzione agli anni delle amministrazioni laurine. (citiamo ad esempio tra i tanti: la “Storia fotografica di Napoli” a cura di Attilio Wanderlingh con testi di Ermanno Corsi oppure il “Vomero” di Giancarlo Alisio, nei quali placidamente si addossa a Lauro la realizzazione della “muraglia cinese”).

Il kafkiano episodio di manomissione fisica del piano regolatore avviene negli anni della gestione Correra.


L’accaduto è noto, ma vale la pena ricordarlo per perpetuarne la memoria. 


Le tavole del piano regolatore del 1939, all’epoca vigente, erano conservate in tre esemplari, al Comune, all’Archivio di Stato ed al Ministero dei Lavori Pubblici. 


I soliti ignoti, non essendo a conoscenza della terza copia, depositata a Roma, agiscono in più tempi impunemente sulle prime due, cambiando a più riprese i colori che identificano la destinazione delle varie aree della città. 


Il verde delle zone agricole diventa così il giallo delle zone edificatorie.

Un caso emblematico è costituito dai terreni dove sorgerà il Secondo Policlinico, che, comprati per tre soldi, frutteranno cifre iperboliche agli speculatori. 


I mandanti di queste continue manomissioni, ai limiti dell’incredulità, si procacciano preventivamente a prezzo vile i terreni agricoli e poi, dopo il colpo di bacchetta magica, anzi di pastello, scaricano milioni di metri cubi di palazzi sui suoli rigenerati, guadagnando cifre da capogiro. 


L’intrallazzo andò avanti a lungo, fino a quando, fortuitamente, venne scoperta l’esistenza della terza copia. Fu quindi aperto un procedimento penale, ma naturalmente i colpevoli non furono mai identificati, rimanendo perciò impuniti, anche se tutti sapevano chi fossero. 


Una vicenda assolutamente irripetibile nella storia urbanistica di qualunque città. 


Don Alfredo (Correra) creò allora un’arma ancora più micidiale, che dava tra l’altro un’etichetta di legalità al comportamento degli speculatori edilizi.

Diede infatti luogo ad un numero imprecisato di deroghe al piano regolatore da lui stesso proposto. 


Erano le famigerate e troppo presto dimenticate “varianti Correra” che legalizzeranno ogni tipo di scempio perpetrato dai costruttori. 


Il commissario prefettizio si serviva infatti di un escamotage che è stato rivelato dall’urbanista Antonio Guizzi, il quale, per inciso, fu consulente per la sceneggiatura del film “Le mani sulla città” e per anni si è battuto, inascoltato dai mass media, per ripristinare la verità storica su quegli anni difficili per la nostra città. 


Le licenze venivano concesse in variazione al piano regolatore cittadino e cominciavano tutte in tal guisa: “Visto il voto espresso il 26 luglio1958 dal consiglio superiore dei lavori pubblici, si rilascia…”. 


A pagare un perpetuo tributo a questo scellerato comportamento sarà tutta la città, che ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, soffre per quei lontani abusi. 


In particolare ne uscirono devastati i quartieri più moderni: Posillipo, Vomero, Arenella e Fuorigrotta. 


Mentre nelle fertili campagne di Soccavo si mette mano ai primi lavori per la nascita del rione Traiano, nel 1960 il prefetto Correra, rinnova una convenzione con la Speme, una società nata per urbanizzare la collina di Posillipo, non senza averla dotata preliminarmente della quarta funicolare. 


Il sodalizio doveva costruire palazzine popolari per dare una casa ai pescatori e ai contadini e a tale scopo godeva anche di esenzioni fiscali e di sovvenzioni pubbliche, ma, strada facendo, realizzò parchi residenziali con rifiniture di lusso e prezzi di vendita che raggiungevano i dieci milioni a vano, fuori dalla portata dei ceti meno abbienti. 


La Speme riesce anche ad ottenere il permesso di raddoppiare quasi l’altezza degli edifici e in pochi anni completa sulla collina, cara agli ozi degli antichi romani, oltre quindicimila vani. 


Finalmente si riesce a definire la data delle nuove consultazioni elettorali: il 6 novembre, dopo quasi tre anni di commissariamento. Un vero scandalo! 


Ma la speculazione continuerà imperterrita fino ai nostri giorni, vedendo criminalità organizzata e politici collusi. 


Ma non è più storia, ma cronaca… ed i risultati sono sotto i nostri occhi.


* * *


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Trattiamo ora di un argomento gastronomico e parliamo della celebre (in tutto il mondo) pizza Margherita.

La pizza Margherita deve il suo nome alla regina Margherita di Savoia.

Infatti fu Raffaele Esposito, pizzaiolo della pizzeria Brandi, tutt'ora in attività, a creare questa pizza nel 1889 in onore della regina, in visita nella città di Napoli.

Condita con pomodoro, mozzarella e basilico che rappresentavano la bandiera italiana, delle tre pizze create dal pizzaiolo napoletano per l'evento, la Margherita fu la più apprezzata dalla regina.

La leggenda, perché di questo si tratta, come ha di recente dimostrato un giovane quanto valente napoletanista: Angelo Forgione, la troviamo in tutti i libri, oltre che nelle pubblicità della pizzeria interessata alla notorietà, a tal punto che la stessa Coldiretti, tempo fa ne festeggiò il 125 anniversario dalla creazione, ricordando una lettera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, che nel giugno del 1889 convocò il cuoco Raffaele Esposito della pizzeria “Pietro… e basta così” al Palazzo di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse per sua Maestà la regina Margherita le sue famose tre pizze.

Ma, come attestato da ormai noti testi ottocenteschi, Raffaele Esposito, in quell'occasione non inventò la pizza con pomodoro, basilico e mozzarella ma la fece semplicemente conoscere alla sovrana piemontese.

Già nel 1849, infatti, il filologo Emmanuele Rocco, nel curare il capitolo “Il pizzaiolo” del libro Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, coordinato da Francesco de Bourcard, parlò di combinazioni di condimento con ingredienti vari, tra i quali basilico, “pomidoro” e “sottili fette di muzzarella”. 


E le fette, distribuite con disposizione radiale, disegnavano verosimilmente il celebre fiore di campo caro agli innamorati su una pizza che Raffaele Esposito avrebbe proposto 40 anni dopo alla regina sabauda.

Un’altra conferma a questa tesi ci viene dal libro Napoli, contorni e dintorni del Riccio, pubblicato nel 1830, nel quale viene descritta accuratamente una pizza con pomodoro, mozzarella e basilico.

Del resto la produzione della mozzarella fu stimolata nei laboratori della Reale Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, un innovativo laboratorio avviato già nel 1780, mentre il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in dono al Regno di Napoli dal vicereame del Perù, e ne fu subito radicata la coltura nelle terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico produsse una gustosa varietà.

Questa realtà storica la troviamo recepita nel Regolamento UE n. 97/2010 della Commissione Europea riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010 accreditante la denominazione Pizza Napoletana STG nel registro delle specialità tradizionali garantite, che al punto 3.8 dell’Allegato II, riporta testualmente:
 “Le pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “margherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico) che ricordano i colori della bandiera italiana.

Dobbiamo concludere immaginando che la propaganda sabauda non volle lasciarsi sfuggire l’opportunità di apporre il suo marchio sul simbolo culinario della grande capitale conquistata ed annessa.


8/1/2016
 
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